Uniti sotto il segno del fare

Dal 13 al 19 dicembre si svolgerà, presso il Teatro India e la Biblioteca Marconi di Roma, Oscillazioni, ultima tappa che, con ventuno eventi in programma, chiude la dodicesima edizione di Teatri di Vetro – festival delle arti sceniche contemporanee. Un evento che indaga la relazione tra chi fa il teatro e chi lo guarda, cercando di avvicinare lo spettatore al processo creativo dell’evento performativo. Abbiamo incontrato Roberta Nicolai, direttore artistico del festival. Un’intervista

di Valeria Vannucci

 

Teatri di Vetro – festival delle arti sceniche contemporanee nasce dalla volontà di un gruppo di artisti che, nel 2007, si riunisce sotto il segno del “fare”. La canonica distanza tra “chi fa” e “chi guarda”, nell’ambito teatrale, continua ad essere uno spazio di ricerca attenta a cogliere le potenzialità di queste nuove relazioni. La necessità di allargare il concetto di interazione/integrazione tra spettatori e attori, per TDV12 si concretizza in variegate esperienze fra spettacoli, performance e dispositivi ibridi che mirano al coinvolgimento di adulti, bambini, rifugiati, amatori, professionisti, partendo dalla partecipazione al processo creativo fino alla sua realizzazione. Proprio sulla processualità delle arti sceniche contemporanee si basa anche il recupero del materiale genericamente scartato che, in questa sede, diventa componente fondamentale per la realizzazione artistica, di cui chiunque può fare esperienza. I “residui artistici”, solitamente ignoti allo spettatore, diventano il fulcro del coinvolgimento sperimentato in spazi culturali e luoghi istituzionali di Roma e dintorni come il Teatro India, il Teatro del Lido di Ostia, la Biblioteca Marconi, la Bisca/Circolo del Parco di Tor Fiscale, l’Angelo Mai, Tuscania e il DAF/Dance Art Faculty. Con quarantuno rappresentazioni, laboratori, seminari e stage, questa esperienza si concretizza nella suddivisione in blocchi progettuali che conducono nella particolarità di ogni evento proposto, in cui si trovano Trasmissioni (17-22 settembre), FYMMEC (Focus Young Choreographers Mediterranean area 2018/19/20, 26-27 settembre), Composizioni (9-11 novembre), Elettrosuoni (2 dicembre) e Oscillazioni (13-19 dicembre), con la direzione artistica di Roberta Nicolai, regista e drammaturga, che si è resa disponibile per spiegare più dettagliatamente il progetto.

 

Come nasce la suddivisione in blocchi progettuali?

Nasce dall’esigenza di dialogare con la creazione contemporanea e coinvolgere i contesti territoriali e gli spettatori. La suddivisione in sezioni è una strategia progettuale, la specificità di una progettazione culturale. Se si vuole progettare dando attenzione reale e dedicando quindi tempo, pensiero, azioni ai progetti degli artisti da una parte e ai contesti – spazi e spettatori – dall’altra, non si può che declinare in modo specifico ogni azione. La suddivisione in sezioni nasce da questa esigenza. È la declinazione di un unico campo di indagine: la relazione vitale tra la scena e la sala, tra gli attori e gli spettatori.

Faccio un esempio: al Teatro del Lido di Ostia abbiamo presentato quattro lavori. La progettazione è partita ad agosto con le interviste che Enea Tomei ha realizzato sul territorio per la produzione di OASI, Comizio sui valori. Oltre a questo lungo processo in cui i cittadini sono stati coinvolti come produttori di contenuti, abbiamo realizzato altri tre laboratori: con i bambini di una II elementare in relazione alla danza della compagnia Cie MF; con i rifugiati del CAS Salorno all’Infernetto per la produzione di Tanto non ci prenderanno mai di Dehors/Audela; con dieci cittadini di diversa età e professione, danzatori nell’immaginaria balera de Lo spazio delle relazioni di Sonenalè.

Non abbiamo presentato quattro spettacoli – non solo. Abbiamo creato un tempo e uno spazio che ha consentito la costruzione di relazioni – con le persone – a partire dalle esigenze dei progetti artistici. In tal senso Composizioni – la sezione presentata al Teatro del Lido – è stata costruita con obiettivi e pratiche di lavoro specifiche e diverse da quelle di Trasmissioni a Tuscania o di Oscillazioni al Teatro India di Roma. Non c’è spazio per un pensiero generalista all’interno della creazione contemporanea.

Da cosa scaturisce la volontà di mostrare agli spettatori “i residui artistici” generati dalle creazioni?

Chiunque abbia passato del tempo in sala prove durante la creazione di un lavoro, sa bene che la vita dei materiali scenici – gesti, azioni, testi ‒ dei temi, delle relazioni tra i soggetti – regista, attori, danzatori, maestranze etc – si condensano in parte in una sintesi poetica tale da riuscire ad essere compresa nel lavoro finale. Molti di quegli elementi sono materia assolutamente effimera, impermanente, labile, eppure teatro, non meno del teatro che poi viene confezionato e finisce sul palcoscenico. Il teatro è anche nel gesto singolo che significa in un istante, si accende per un attimo, commuove e muove l’immaginazione di chi osserva.

Se si vuole invitare gli spettatori a uscire da un’attitudine passiva e a assumere il loro vero ruolo di parte in causa, di interlocutori, di parte necessaria all’incanto della rappresentazione, è necessario azzardare modalità e dispositivi scenici diversi che possano restituire i diversi piani del performativo e della rappresentazione. È a partire da questo pensiero che Oscillazioni in particolare, attraverso un lungo dialogo tra curatela e artisti, cerca di restituire agli spettatori i diversi dispositivi di un progetto artistico, facendo emergere a tratti i residui, a tratti i processi, altre volte affiancando al discorso centrale di uno spettacolo discorsi laterali o obliqui. La scena contemporanea non è solo complessa, è ricca e viva. Tale vitalità può emergere ridando senso al gesto collettivo del fare teatro. Oscillazioni è un tentativo, uno dei possibili.

Dopo 12 anni di edizioni, quali sono gli obiettivi raggiunti da TDV?

Nel 2007 non si parlava né di ricambio generazionale né di scena contemporanea. Chiaramente le questioni esistevano ed esprimevano una necessità ma non erano al centro dell’attenzione. TDV, insieme a tutta una serie di altri soggetti e progetti, ha dato corpo a tali esigenze e queste sono diventate evidenti. È chiaro che la scena contemporanea è rimasta – quanto a risorse – ugualmente marginale. Ma è oggi un soggetto – seppur multiforme e plurale – che il sistema teatrale ha presente. Credo che questo sia l’obiettivo raggiunto non da TDV soltanto, ma da un movimento collettivo da cui TDV e altri progetti della medesima generazione sono nati. Ed è anche il suo più evidente fallimento: la scena contemporanea, in Italia, continua ad essere percepita dagli spettatori come un prodotto di nicchia e continua ad avere risorse pubbliche di gran lunga inferiori al teatro tradizionale e di repertorio. Una disparità che non verrà corretta. Almeno non nell’immediato.

E in una prospettiva a lungo termine, quali sono quelli che vorreste raggiungere?

La situazione attuale è incerta. Credo che l’attitudine più percorribile sia quella di mettere energie per alimentare un orizzonte di desiderio – così sfocato in questo momento – e ascoltare le continue trasformazioni del reale, non per adattarsi quanto per poter rilanciare a partire da tale ascolto. Cercando di mantenere leggerezza e duttilità, circoscrivo la prospettiva progettuale al movimento possibile all’interno del triennio 2018-20. In questo triennio l’intento è radicalizzare l’impostazione che il festival ha assunto, cercare e indagare nuovi modi della rappresentazione e provare a coinvolgere gli spettatori e la loro sensibilità, non su grandi apparati ma sul sottile, il minuto, il dettaglio, gli elementi che la memoria individuale conserva nel tempo. È lì la possibilità di permanenza di un’arte effimera e l’unico campo di ricerca possibile.

 

Contaminazione, ibridazione, recupero, dialogo, integrazione continuano ad essere le parole d’ordine nei progetti che vedono la ricerca come il territorio del “fare”, in cui un altro termine risulta fondamentale: resistenza. Nel panorama attuale, al di là dell’ambito teatrale, recuperare ciò che altrimenti andrebbe perduto, dalle esperienze ai materiali concreti, diventa un resistere che trova nelle novità dei linguaggi artistici e delle sue applicazioni risultati possibili. Una campagna “ecosolidale” nel recupero delle interazioni, delle esperienze e delle relazioni fra persone di cui le arti sceniche contemporanee possono essere il mezzo.

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