55 anni dell’Odin Teatret: lo spirito del laboratorio.
Roma, gennaio/febbraio 2019
di Margherita Dellantonio
Entrando nell’aula magna della sede di via dei Volsci dell’Università degli Studi di Roma La Sapienza per assistere ad una masterclass, ci si aspetterebbe di vedere il pubblico seduto sulle comode poltroncine ad ascoltare i relatori sul palco che, microfono alla mano, tengono una lezione. Tuttavia, martedì 12 febbraio, gli spettatori sono affollati in un’unica ala della sala, siedono a terra, qualcuno allunga le gambe, altri, più dietro, restano in piedi per osservare meglio ciò che accade. Eugenio Barba, al centro di questa scena, comincia a parlare proprio di spazio. Racconta dello spazio interiore dell’invenzione, della creatività, e della capacità dell’attore di trasportare la sua inventio in un disegno, percettibile nello spazio condiviso che abitiamo. Non si tratta però solo di teoria. Accanto a lui Julia Varley, storica attrice (e non solo) dell’Odin Teatret, il teatro fondato da Barba nel 1964 e stabilitosi ad Hostelbro, in Danimarca, nel 1965, dimostra come avviene questa comunicazione. Seguendo alcune indicazioni del regista, Julia si muove nello spazio, improvvisa gesti che seguono le linee d’energia che vi trova: la durezza delle luci al neon, la forma ondulata delle file di poltrone, il movimento morbido delle tende che circondano la sala. Esegue variazioni dei suoi movimenti, li sussurra, li urla, li esprime con la voce, con il suono e poi con la parola, mostrandoci le diverse possibilità e livelli di espressione dell’attore: il linguaggio fisico, quello sonoro e quello concettuale.
La distanza ravvicinata tra l’attrice e gli spettatori è fondamentale perché questi ultimi possano concentrare l’attenzione, lo sguardo ed il pensiero sull’atto teatrale in corso. «Il teatro è l’arte dello spettatore», e l’attore ha il compito di stimolarne la «danza dei sensi e della mente», scrive Eugenio Barba nel suo libro La canoa di carta. Trattato di antropologia teatrale (Il Mulino, 2004).
Per gran parte del mese di febbraio i cittadini romani hanno l’occasione di far danzare i propri sensi ed i propri pensieri con l’Odin Teatret, arrivato in città per festeggiare i suoi 55 anni di attività.
La «piccola tradizione nomade» di Eugenio Barba animerà diversi spazi della città di Roma tra seminari, masterclass, dimostrazioni di lavoro, mostre, film, presentazioni di libri e il loro ultimo spettacolo, L’Albero, in scena al Teatro Vascello dal 13 al 24 febbraio. Altri luoghi abitati dall’Odin nel fitto programma proposto sono Abraxa Teatro, le Università La Sapienza e Roma Tre, il Teatro di Roma, il Teatro Argot Studio, le Biblioteche di Roma, la Libreria del Palazzo delle Esposizioni.
La sede dell’Odin Teatret a Hostelbro non rientra certo nell’immaginario di un teatro con palchetti, ori e velluti. È un teatro dove si dorme, si mangia, si vive oltre a recitare. Il teatro, scrive ancora Barba ne La canoa di carta, è fatto delle donne e degli uomini che lo fanno, non di pietre e di mattoni. Tuttavia, lo stesso regista afferma che visitando certi teatri, classici o antichi, «sperimentiamo le stesse reazioni cinestetiche che può darci uno spettacolo vivente». Questo avviene indubbiamente entrando al Teatro Valle, un luogo di ricco di memorie che hanno segnato la città di Roma e la storia del teatro.
In attesa che la sala del Teatro Valle torni ad essere abitata da attori e spettatori l’amministrazione capitolina ha affidato lo spazio al Teatro di Roma per restituirlo, seppur parzialmente, alla città. Il Valle, da poco più di un anno, è stato dunque riaperto al pubblico ospitando diverse attività culturali ed esposizioni. Dal 17 gennaio il teatro settecentesco è entrato in dialogo con Gli spazi segreti dell’Odin Teatret, anticipando l’arrivo della compagnia nella capitale. La mostra attualmente allestita, visitabile fino al 17 febbraio, si compone di più sezioni che raccontano l’Odin, i suoi spazi e la sua storia cinquantenaria. Sul palco del Teatro Valle, anticipando il debutto del già citato spettacolo L’albero, è stato possibile ammirarne la scenografia, ideata e realizzata da Luca Ruzza, Giovanna Amoroso e Istvan Zimmermann. In platea, oltre ad alcuni costumi, diffusi lungo tutto il percorso espositivo, i visitatori possono entrare nella Casa dell’Odin per conoscere lo sviluppo degli spazi di lavoro del gruppo a Hostelbro, grazie ad un’esposizione fotografica curata da Selene D’Agostino. Alcuni film, provenienti dagli archivi dell’Odin, vengono proiettati a ciclo continuo su schermi installati nei palchi, dando la possibilità agli spettatori di immergersi non solo nello spazio scenico del gruppo danese ma di viverne, per quanto in video, le pratiche performative e di entrare in rapporto più stretto con la loro visione del teatro. Tra le proiezioni, merita di essere citata la prima visione italiana del film Lo spazio instabile del teatro, di Claudio Coloberti ed Eugenio Barba.
Un’altra parte della mostra, in collaborazione con l’Università di Roma Tre (Biblioteca delle Arti), è dedicata ai manifesti più significativi degli spettacoli e di altri eventi dell’Odin. Un fiume scende lungo le scale che portano agli ordini dei palchi superiori del Valle (chiusi al pubblico): un richiamo all’installazione interattiva Væksthus, allestita presso la Biblioteca Villino Corsini a Villa Pamphilj fino al 24 febbraio. Væksthus, serra in danese, è un “viaggio” che racconta i preparativi dello spettacolo La vita cronica(2011). Lo spettacolo è stato inoltre ripreso in diverse repliche e poi montato, dando vita ad un omonimo film, la cui presentazione è prevista all’interno del programma di eventi dell’Odin a Roma. Il lavoro di traduzione filmica della performance teatrale realizzato da Chiara Crupi è stato un processo lungo e difficile, come racconta la stessa regista. Più che di un film si potrebbe parlare di un documentario etnografico, il cui esito finale è davvero notevole. Partendo dal paradosso che uno spettacolo è come un organismo vivente ed il teatro non si lascia filmare, Chiara Crupi è riuscita a carpire la vita della performance con l’occhio della sua telecamera e tramite un sapiente montaggio a restituirla agli spettatori.
Infine, sulle pareti del foyer del Teatro Valle, si può ammirare la poetica installazione video dell’artista italo-tedesco Stefano di Buduo, Visione dell’Odin.
Eugenio Barba, citando Ferdinando Taviani, «ha saputo riunire, come in un comune villaggio, persone che aderiscono al teatro ma che di per sé vivrebbero separate dalla diversità delle provenienze, dei linguaggi, degli stili, delle tradizioni, specialità e mansioni». Possiamo asserire che ciò non avviene solo con le persone, ma anche con gli spazi del teatro, come dimostra la relazione dinamica che si è creata tra l’Odin Teatret ed il Teatro Valle, luoghi apparentemente distanti e distinti, ma in grado di comunicare, di respirare insieme nel «regno magico» del teatro.
Allo spettatore romano, al passante, al vagabondo, si consiglia di non perdere l’occasione di ballare, con il corpo, le emozioni ed il pensiero insieme all’Odin Teatret, lasciandosi trasportare lungo sentieri inesplorati o su quelli già battuti ma da riscoprire, danzando tra gli arabeschi delle correnti, poiché, in fondo, siamo tutti nomadi nel regno dell’arte e del teatro.