«Il volto impresso sul rovescio della mente»: Sarah Kane rivive al Torlonia

Elena Arvigo porta in scena al Teatro Torlonia l’ultimo testo di Sarah Kane, 4:48 Psychosis, per la regia di Valentina Calvani, aprendo la trilogia che la vedrà tornare sullo stesso palco con Il dolore di Marguerite Duras (23-24 marzo) e Una ragazza lasciata a metà di Eimear McBride (30-31 marzo). I rottami sparsi sulla scena, spazio di una mente sgretolata, traducono i frammenti poetici del testo: pezzi di vetro, terra, urne del lotto che sputano numeri, carte da gioco.

Articolo di Eva Corbari

Mentre accenna un solitario, una donna fasciata da un peplo rosso dà il via ad una raffica di frasi, ripetizioni nervose, sovrastate costantemente dalla musica, racconti visionari di cure psichiatriche e rapporti falliti.

Uno specchio, in alto e al buio, non cattura alcuna immagine; in scena una voce, in platea ombre, con momentanei istanti di luce e contatto: il “voi” che scuote, le camminate tra il pubblico che si trova a ridosso dello spazio scenico, efficacemente allestito ai piedi di un palco troppo elevato rispetto alla platea. La vocalità dell’Arvigo tratteggia la nascita e la maturità di un tormento, con variazioni ritmiche e tonali mai fuori misura, in un tempo tutto interiore.

Il suo corpo ora si abbandona su una sedia, ora dondola nella semi-oscurità, in una corsa verbale inarrestabile, come se un respiro in più spegnesse la sua rabbia: l’iper-sensibilità non s’armonizza con la società e i suoi dogmi scientifici e culturali (psichiatria, Dio, famiglia), diventando malattia.

La non-eroina dalla femminilità prepotente non risparmia sarcasmo, non invoca pietà, bensì desiderio d’un amore universale, per il quale la tenerezza non basta. Per cercarlo, si precipita nelle viscere della materia: come trono c’è una sedia di plastica, la terra sul palco si mescola alla saliva, al fiato, ai piedi nudi sulle schegge. Finché la Arvigo salita su uno sgabello come per un’impiccagione annunciata (la Kane si suicida così, il 20 febbraio 1999, a 28 anni) fronteggia gli spettatori, per dire: «io resisto».

Bisogno di vivere e di fare teatro si sovrappongono, ricordando a ciascuno la responsabilità della propria debolezza, ma anche della potenza comune: la commozione della sala sembra evocare una nuova consapevolezza. Attraverso il teatro come affronto alla forma e spiraglio di libertà, si perpetua un grido di sopravvivenza che chiede, soprattutto ai numerosi giovani tra il pubblico: c’è speranza, oggi, di tornare imperfetti, senza restare soli?

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