Mimmo Cuticchio: «Per fare teatro bisogna essere pazzi»

Mimmo Cuticchio e la sua carovana sulla strada per Roncisvalle

Articolo di Doralice Pezzola

Dice Eugenio Barba che se hai scelto di fare teatro è perché hai qualche problema. Nessuno riceve un telegramma dal Presidente della Repubblica che gli ingiunge di fare teatro, e di farlo pubblicamente. Il teatro è, forse prima di tutto, qualcosa che si fa per propria necessità. Una cosa che, però, non si può fare da soli. Ed è a quel punto che una pazzia personale diventa, con gioia di noi spettatori, una pazzia di tutti.

La pazzia è quella lente deformante che faceva vedere a Don Chisciotte un esercito di soldati al posto di un gregge di pecore, e lo lanciava a cavallo giù per la vallata incurante delle inappuntabili obiezioni del fido scudiero Sancho Panza. Questo è quanto fa, a detta del Professor Guido Di Palma, anche il celebrato maestro dell’arte dei pupi siciliani Mimmo Cuticchio, che lo scorso 6 marzo ha incontrato docenti, studiosi e spettatori affezionati nel complesso universitario di Ex Vetrerie Sciarra per presentare Da Roncisvalle a Roncisvalle, titolo di un libro e di un documentario sul suo ultimo progetto teatrale itinerante.

A Sancho Panza, Don Chisciotte replicava: tu guardi ma non vedi, quello è un esercito e tu sei vittima dell’incantesimo del Mago Festone, che trasforma l’apparenza delle cose. E, ha chiosato Di Palma, «qualcuno che scambia le pecore per un esercito è esattamente quello di cui oggi abbiamo bisogno: perché significa che sa guardare al di là, vedere l’invisibile. Ed è l’unica cosa che conta, che ti permette di trascinare le persone con te».

Ha così preso l’avvio quello che, più di un incontro, è parso il rito conviviale di una tavola rotonda di amici appassionati dell’arte come ragione di vita. Insomma tutti, chiaramente, rigorosamente pazzi. 

Sì, perché fra le file dell’aula Levi era disseminata una ben strana carovana, quella che ha accompagnato il maestro Cuticchio nella più recente delle sue imprese teatrali: un viaggio in tre tappe per ripercorre i passi di Orlando. Da giugno a luglio, via Palermo e Roma fino a Roncisvalle.

«Voler raccontare la rotta di Roncisvalle, a Roncisvalle, è una follia. Ma si può resistere alla follia? La follia non è quella cosa che ci permette di resistere e di vivere in una società così degradata?»: così il Professor Di Palma ha passato la parola a Mimmo Cuticchio.

«Quando sognavo Roncisvalle, ero da solo. L’unica che mi sostiene sempre, da subito, è mia moglie. Quando le ho detto: ho settant’anni, se non lo faccio ora non lo faccio più, lei poteva chiamare il manicomio e dire: venitevi a prendere mio marito, che è andato. E invece siamo partiti».

Guardare al di là, saper vedere l’invisibile. Nel caso di Mimmo Cuticchio, intagliata dentro la metafora sta la tecnica stessa, pronta a moltiplicarsi in un cosmo di significati. «Si dice che Omero era cieco. Ho capito perché. Quando ho iniziato, per estraniarmi, io chiudevo gli occhi. Gli spettatori più curiosi mi chiedevano: ma vai in trance? Sembravo drogato, oppure uno sciamano. In realtà è molto semplice, niente di sciamanico: chiudevo gli occhi, e davanti mi scorreva la pellicola di quello che stavo raccontando. Quando guardo le immagini, le vedo al ralenti. Magari anche Omero, quando faceva la sua cantilena, chiudeva gli occhi. Guai se non lo facessi: se mi perdo, rischio di non ritrovarmi nel cunto. È proprio questa scansione che mi fa ritrovare. Se mi dimentico un nome, basta che guardi nella pellicola che ho in testa».

Certo, Mimmo Cuticchio è un unicum nel nostro panorama artistico. È un puparo che ha dovuto vedersela coi pupari che prima di lui avevano costruito, e cristallizzato, un’arte dei pupi. Con il suo linguaggio moderno, si sentiva a disagio di fronte a quella tradizione «protocollare». Ma il cuore della sua poetica risiede proprio nell’aver fatto una ferita alla corteccia di un albero secolare, perché potessero zampillarne fuori tradizioni inedite. Durante l’incontro ci si è domandati, allora, perché fare politica culturale nel nostro Paese significhi, con poche eccezioni, occuparsi di cifre, in un sistema diviso in Arte di serie A e Arte di serie B che riduce un meccanismo complesso ad una questione di tifoseria. Fare politica culturale, per citare ancora Barba, è creare cornici in cui possa accadere l’imprevedibile. E per concludere con le parole di Guido Di Palma, “mastro cerimoniere” che ha traghettato il pubblico fuori dall’incontro: «La cosa più importante, in questi casi, è essere guardiani del caos». Il caos è per i pazzi, il teatro è per i pazzi. Pazzi felici, però.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *