Autorialità, improvvisazione e incontro con l’altro: questo è il teatro di Andrea Cosentino, autore, regista, attore che da 30 anni calca i palchi e abita le piazze di tutta Italia, presentando al pubblico i suoi “One Man Show” comici. Una comicità sempre pronta a offrire una perpetua riflessione sullo stato dell’arte e su quello della società. Insignito del Premio Speciale Ubu 2018, Cosentino racconta la sua vita professionale, tra aneddoti e stoccate al sistema teatrale, con lacerante sincerità.
Intervista di Ornella Rosato
Ornella Rosato: Nel corso della tua formazione hai avuto modo di lavorare con grandi maestri, da Dario Fo a Philippe Gaulier, presso la scuola di Jacques Lecoq a Parigi. Quanto resta nel tuo lavoro di oggi degli stimoli e degli insegnamenti che hai ricevuto in quel periodo? Verso cosa ti hanno condotto?
Andrea Cosentino: In genere mi associano a Dario Fo, in realtà con lui ho avuto la mia prima breve esperienza di studi teatrali e niente più, non avevo ancora compiuto i diciotto anni, l’estate dopo il diploma liceale. Prima di allora non ero neanche uno spettatore di teatro, tanto meno credevo di volerne fare, mi appassionavano invece il cinema e la regia. La cosa che attribuisco a Dario Fo non sono gli insegnamenti, perchè quando non sai nulla di un certo ambito, non sei nemmeno in grado di recepire eventuali insegnamenti: ero con un maestro ma non sapevo di che tipo di arte fosse maestro, per cui non credo di avere imparato nulla in quell’occasione. Quello che posso dire piuttosto, e non è poco, è che con Dario Fo mi si è rivelato il fatto che il teatro può essere una pratica autoriale prima che attoriale. Io non mi considero un attore, oggi si dice performer che è una parola odiosa e su cui ho anche ironizzato molto in un mio recente spettacolo sull’arte contemporanea, però performer è un termine sufficientemente generico da poter essere utilizzato. Chi conosce il mio teatro probabilmente mi definirebbe un autore-attore ma, in realtà, credo che tutta la mia ricerca, in particolare quella dell’ultimo periodo, vada piuttosto nella direzione di voler eliminare questa linea di demarcazione. Sono in scena e mi esprimo con parole e gesti e azioni: questa è una condizione che viene prima di quella dell’attore-autore, che è come una definizione che pretende di fare delle divisioni del teatro borghese, quello del drammaturgo, del regista e dell’attore, il metro di tutto. Io sono uno che sta in scena e che mentre è in scena è responsabile di quel che fa. Non sono uno che scrive un testo, poi lo impara a memoria, poi lo recita. A pensarci è bizzarro che uno reciti fedelmente a memoria parole che ha scritto egli stesso, quando il momento presente potrebbe suggerirtene di nuove e più adatte. Il vantaggio di questa condizione è che per quanto tu dica o faccia o ti agiti, non potrai mai tradire l’autore. Che poi, per altro verso, ma è discorso più profondo, questa impossibilità di tradire sé stessi è anche una condanna alla quale devi sforzarti di trovare delle vie di fuga. Fuggire dalle gabbie dell’io, credo si dica. E in questo sforzo, per quanto mi riguarda, si incontra l’essenza del teatro, la sua forza e la sua evanescenza, la compresenza con lo spettatore, l’improvvisazione e tutto il resto.
O.R.: Da questo punto di vista, che tipo di operazione compi quando decidi di mettere in scena qualcosa, da cosa parti?
A.C.: Parto da vari stimoli e da varie idee, il più possibile disparate, mi sfido a metterle assieme, e poi lavoro molto sulla digressione e sull’improvvisazione. Prendi quello che considero il mio spettacolo più ardito e compiuto dal punto di vista drammaturgico, Primi passi sulla luna, pur essendo molto semplice come impianto – ci sono io in scena che chiacchiero – drammaturgicamente ha una notevole complessità; ebbene, io di quello spettacolo non possiedo nemmeno il testo. Lo spettacolo è nato dal silenzio, raccontandolo e improvvisandolo con pochi schemi e appunti, ho iniziato a farlo davanti al pubblico, ed è diventato quel che è diventato e ancora adesso, dopo dieci anni, continua a evolversi e ogni sera è lo stesso eppure è diverso. Sono attore-autore di quello spettacolo? Sì, lo sono, ma la cosa interessante per me è che lo spettacolo si faccia davanti a chi mi guarda, è su questo che lavoro. Spingere per quanto possibile l’autorialità verso lo spettatore, o almeno condividerla con lui.
O.R.: Il tuo lavoro si fa rientrare tra le esperienze artistiche ascrivibili al “teatro di ricerca”. Ai tuoi esordi, che cosa significava teatro di ricerca e che cosa, se è possibile utilizzare ancora quest’etichetta, significa teatro di ricerca oggi?
A.C.: Tutto sommato secondo me non è cambiato molto, teatro di ricerca continua a essere una definizione che si utilizzava allora, e si utilizza oggi, anche se io non vi sono molto affezionato. La domanda forse dovrebbe essere quanto il teatro di ricerca di ieri ha contribuito a far evolvere il linguaggio teatrale mainstream di oggi? E la risposta desolata è: poco e niente. Di più, quando i protagonisti della ricerca di ieri, con rare eccezioni che però non fanno regola proprio per una loro conclamata eccezionalità, sono stati promossi ai vertici delle istituzioni teatrali, in questo passaggio hanno dismesso le loro innovazioni linguistiche. A dar credito alle parole, si dovrebbe pensare che tu sia alla ricerca di qualcosa e, una volta che l’hai trovata, questa cosa debba entrare con forza e a pieno titolo nel linguaggio accettato e consolidato, ma le cose non sembrano andare proprio così, per cui teatro di ricerca si riduce a essere una definizione che individua un target e uno stato anagrafico o addirittura di minorità, piuttosto che una vocazione autenticamente sperimentale e costruttiva. Un po’ come dire, divertitevi a fare evoluzioni acrobatiche da bimbi sull’altalena e ai più bravi e meritevoli o astuti, da grandi un bel posto seduti comodi sulla poltrona. Cambiando discorso e punto di vista, posso dirti che io ieri come oggi vedo spettacoli molto belli che non verrebbero mai definiti di ricerca e viceversa, però al fondo il teatro convenzionale ha qualche cosa che a me non interessa: se voglio vedere rappresentata una vicenda, un intrigo me ne sto a casa davanti a Netflix, non ho bisogno né voglia di andare a teatro. Uno spettacolo che non sia di ricerca, mediamente è una rappresentazione che non problematizza il linguaggio che usa, con una drammaturgia che mette in scena conflitti e intrighi che oggi il cinema e la televisione sanno raccontare meglio. Quello che continua a interessarmi è lo specifico teatrale, mi piace l’idea di un teatro che sia in grado di regalarti qualcosa che non potrebbe esserti fornita altrove. Il fatto di essere un performer che improvvisa, per me implica soprattutto che il mio lavoro non verte solo e non tanto sul presentare delle opere come qualcosa di chiuso che si svolge davanti a te in maniera per quanto possibile interessante e fascinatoria, ma ha a che fare con il portare in scena i processi piuttosto che i risultati. Peter Brook, lo cito a memoria e forse imprecisamente, ha scritto da qualche parte che le prove di uno spettacolo dovrebbero essere come il mettere a punto un veicolo ma quel veicolo si mette in moto solo alla presenza del pubblico. Il viaggio lo devi fare con lo spettatore insomma, perchè il teatro abbia ancora un senso deve necessariamente essere così, la scoperta si deve fare assieme, qui e ora. Altrimenti l’esperienza teatrale si riduce a qualcosa che assomiglia pericolosamente a una di quelle noiose serate dove la coppia di amici rientrata dalle vacanze si esalta a raccontarti gli aneddoti e mostrarti le fotografie dei luoghi visitati. E a quel punto è inevitabile trovare più soddisfazione in Piero Angela o nei documentari di National Geografic, che peraltro ti puoi godere sdraiato sulla tua poltrona di casa.
O.R.: I tuoi spettacoli sono dei “One Man Show” comici. Tra una risata e l’altra, però, riesci sempre a proporre degli spunti di riflessione che talvolta scaturiscono da un cambio di registro repentino che colloca i finali dei tuoi lavori su un piano drammatico. Mi chiedo se questa sia una scelta puramente stilistica, se nasca dall’urgenza di trattare certe tematiche o se quest’operazione dipenda dalla volontà di misurare la temperatura morale di chi è presente in sala e, dunque, di una fetta della nostra società.
A.C.: C’è stato un periodo in cui sono stato molto orgoglioso di questa cosa, mi definivo ironicamente “il più grande inventore di finali vivente”. Il finale per me è una necessità drammaturgica, perchè nel finale tutto si raduna. I miei spettacoli, soprattutto quelli con una drammaturgia più strutturata, non procedono in modo narrativo, neanche considerando una narratività spezzata e postmoderna, ma funzionano, piuttosto, come dei puzzle. La mia attenzione si concentra sul mettere sul piano le tessere non in un ordine limitrofo e consequenziale, ma a una tale distanza per cui l’unico modo di riconoscere forma e coerenza al puzzle è aspettare l’ultima tessera che farà finalmente apparire il disegno. Quest’ultima tessera è il mio finale. Che poi sia tendenzialmente commovente dipende forse dal fatto che anche nella comicità più sgangherata e nella surrealtà è sempre di umano che si parla, e questo non può che riguardarci tutti. E poi mi concedo delle cose, ad esempio nei finali spesso metto della musica, e talvolta un cambio di luce: di base nei miei spettacoli non c’è musica, non ci sono cambi di luce, io sono molto monastico in questo senso, perchè li ritengo mezzi sleali e di troppo facile presa e, al fondo, non specificatamente teatrali. Credo che se hai bisogno di luci e musiche registrate per dire delle cose, semplicemente quello non è un buon teatro. Allo stesso tempo però il mio non è un teatro povero come quello grotowskiano, e come alcuni altri posteriori che sbandierano la propria austerità, che talvolta si ammantano di una essenzialità esibizionistica. In generale, non metto musiche, però faccio almeno un cambio luci per ogni spettacolo perchè non mi piace essere coerente al punto da far diventare questa scelta di rigore un marchio stilistico, un logo. D’altronde i veri poveri non amano, e a ragione, esibire la propria miseria. Io non voglio che tu venga a vedermi per ammirare la mia essenzialità, io voglio che tu volta a volta ti diverta o rifletta o ti appassioni o quel che ti pare, il resto sono problemi artistici e di coerenza miei che non devono assolutamente riguardare lo spettatore. Per quanto riguarda i cambi di registro, dovrei parlare di ogni singolo spettacolo, dunque mi limito a un paio di esempi. In Kotekino Riff il cambio di registro del finale mi serve per ribaltare la situazione. È uno spettacolo che si gioca programmaticamente sulla frustrazione dell’attesa: sei in un teatro, ti aspetti che qualcuno ti dica o faccia qualcosa di costruttivo, e invece assisti a un continuo e sincopato incalzare di gag e situazioni interrotte e pause immotivate, che ti pone in una dimensione scomoda per quanto divertente e la scena finale è il burattino di Artaud mendicante che ti investe con una sfilza di domande sul senso di assistere, di essere spettatori e di essere attori, e sul senso del cercare un senso in definitiva, dove la bellezza che io cerco è quella di condividere domande semmai, e l’insensatezza del tutto. Di essere assieme e fare festa pur nella sconfitta. Primi passi sulla luna, che è dichiaratamente un lavoro non finito e postumo come dichiaro nel sottotitolo, ha addirittura due finali, uno dove in dieci minuti ti riferisco l’artificio che avrei usato se avessi voluto farne uno spettacolo, ovvero un racconto tutto al tempo imperfetto, il tempo dei sogni e dei giochi e anche del teatro se vuoi, il tempo del “facciamo che io ero” e attacco con un “facciamo che volevamo andare sulla luna” un racconto molto poetico su me e mia figlia, per poi ricondurti bruscamente al presente, il tempo dove c’è solo quel che c’è che in genere è poca cosa. Immaginazione e realtà se vogliamo. Con il paradosso che l’immaginazione è quella di un evento annunciato, che dà sostanza e tensione a tutto il lavoro, e che nella sua drammaticità è carico di senso e di bellezza. Mentre la realtà si rivela in un happy ending improvviso e inaspettato, il dramma scompare, eppure con questo svanisce anche ogni pienezza e ogni possibilità di poesia. Poi c’è un secondo finale, apparentemente più leggero, con l’ennesima finto-vera ipotesi su come siano andate davvero le cose con l’Apollo 11, dove si racconta di un Armstrong licantropo che, dopo anni trascorsi a alzare la testa al cielo e ululare alla luna, infine ci arriva, alza lo sguardo al cielo e… vuoto. Finita con la luna e la poesia. Se vuoi è la sintesi della storia di prima, ma virata su un registro di assurdo totale, eppure allo stesso tempo divertente e struggente. In conclusione, è proprio quello che ti dicevo, se vuoi banalmente i miei finali sono l’equivalente di quella che è l’agnizione nelle vecchie commedie con l’intreccio: darti una chiave solo alla fine. Io procedo per digressioni e storielle e accadimenti apparentemente irrelati, e il finale mi serve proprio per riannodare i fili, il più inaspettatamente possibile.
O.R.: Con Telemomò hai avviato una ricerca sul rapporto tra società e televisione, teatro e cultura popolare. Qual è per te lo stato dell’arte oggi e del teatro in particolare dal punto di vista mediale, cioè di trasmissione e ricezione del contenuto spettacolare, dopo lunghi anni di assoluto dominio della televisione? In questo senso, qual è la missione di Telemomò?
A.C.: Telemomò nasceva in anni berlusconiani, peraltro dopo che avevo fatto televisione in prima persona. Era la mia risposta a quella esperienza, che avevo fatto proprio con Mediaset, mea culpa. Telemomò è un format che utilizzo spesso anche e soprattutto quando devo fare spettacoli in spazi non teatrali, è il mio strumento preferito perché mi porto dietro la mia cornice. È certamente una roba che oggi si direbbe pop, a partire dalle barbie e da tutti gli oggettini paccottiglia che sono diventati un po’ il mio marchio di fabbrica, e che oggi prosperano su molte scene. Ma il punto credo non siano i giocattolini, puoi usare un segno pop in contesti assolutamente sofisticati e radical chic, come direbbero oggi i nostri detrattori, il punto credo sia la cornice, in questo caso lo schermo bucato della mia televisione anni Novanta, è quella che deve essere popolare prima che pop. Io utilizzo come sponda un linguaggio, quello della televisione, che era – e che forse è ancora – dominante, per cui anche spettatori non interessati al teatro riescono a comprendere su cosa si stia facendo dell’ironia e della decostruzione. Il nucleo di Telemomò è che con la povertà materiale dei mezzi del mio teatrino d’animazione artigianale, mimo la povertà linguistica e culturale della televisione. In questo spettacolo vedi la mia faccia con la parrucca, poi vedi una barbie e in questa successione decodifichi ad esempio un allontanamento, o un campo e controcampo. È un modo semplice ma efficace di destrutturare un linguaggio. È come prendere un montaggio televisivo e divaricarlo, con le pause e il mio chinarmi a raccogliere la prossima parrucchina, aprirgli delle ferite, e queste pause sono la parte comica di Telemomò, dove il teatro, cioè la vita, si insinua nell’apparente implacabilità e naturalezza del discorso filmico, sono il momento in cui più o meno coscientemente lo spettatore si prende il tempo di riconoscere di aver incorporato un linguaggio, quello dell’audiovisivo, e che questo linguaggio è diventato parte del suo modo di decodificare il mondo. Questa, se vuoi, è la missione culturale di Telemomò.
Per me il teatro come medium è una cosa obsoleta. A me non interessa il teatro, a me interessa il “dal vivo“, il “live“. Non voglio avere bisogno della cornice del teatro affinché lo spettatore riesca a decodificare ciò che faccio. Cerco di fare cose il più vive possibile e per farle essere vive, devo far sì che accadano mentre accadono. La differenza e la potenza potenziale, se mi permetti il gioco di parole, del teatro rispetto al resto delle opere d’arte, e parlo in questo caso del teatro come evento e non come linguaggio, non è che chi ti guarda sia vivo, questo accade per qualunque opera, ma è che tu artista vedi chi ti sta di fronte. Io posso cambiare il mio stare in scena a seconda di come reagisce il pubblico davanti a me, è veramente ciò che distingue il teatro da tutto il resto. Per tornare al discorso precedente su attorialità e autorialità, trovo sia più prezioso essere fedeli alla situazione presente che ai piani prestabiliti. L’opera non ti vede, vuole solo essere letta e riconosciuta, io invece vedo lo spettatore e cerco di riconoscerlo quanto lui riconosce me. Il teatro dovrebbe essere un incontro ma non un incontro a senso unico, in cui l’attore si esibisce vestito a festa e il pubblico ha il dovere di ammirarlo e applaudirlo. Ci si deve incontrare a metà strada. La mia illusione è che nei miei balbettamenti, nei miei vuoti di memoria, nei miei indugi, lo spettatore possa inserirsi e dire “Io ci sono!” e in questo senso il performer che cerco di essere non è un performer fascinatorio: la fascinazione è basata sul solipsismo, sulla frustrazione del desiderio, sull’inarrivabilità. Per essere affascinante, devi escludere lo spettatore affinchè lui desideri essere lì con te. Un po’ come le star del cinema e dei rotocalchi. La fascinazione è una forma di potere e il mio teatro è contro qualsiasi forma di potere, prima tra tutte il potere della rappresentazione. Allora ricerco altri strumenti di efficacia non autoritaria, come il clown, la comicità, l’osceno, ovvero l’inadeguatezza alla rappresentazione e allo stare in scena.
O.R.: Da alcuni mesi, tieni un laboratorio all’Università di Roma Sapienza sul comico e la farsa. Qual è l’insegnamento più importante che cerchi di trasmettere ai tuoi allievi circa l’arte comica?
A.C.: Oggi l’ironia, la comicità sono quasi un obbligo. Anche come forma di scrittura il comico è una forma predominante. Noi teatranti non riconosciamo la stand-up comedy come teatro eppure lo è, è addirittura teatro povero in senso brookiano. Il suo limite semmai è che spesso si tratta di una comicità di scrittura, di battuta che è una forma chiusa molto definita. La comicità che mi interessa – e che è sempre un obbiettivo difficilmente raggiungibile – è quella per cui ridi e non sai esattamente perché. Quel che cerco di fare come insegnante è dare gli strumenti giusti per comprendere che la comicità vera, ma per altri versi il teatro tutto è qualcosa che puoi solo aspettare come un miracolo che potrebbe arrivare da un momento all’altro, ma devi farti trovare pronto. Darti la forza per accettare questa condizione di fragilità come l’unica che valga la pena. Quando capisci che il miracolo sta avvenendo, devi essere in grado di far deflagrare la comicità. Se vai in scena con la sicurezza che tutto è già pronto potresti andare incontro a un fallimento, se invece entri in scena con l’idea che potresti morire lì, che nulla potrebbe funzionare ma che il miracolo potrebbe arrivare, forse hai una possibilità. Sono una persona molto laica ma per me è giusto che l’atto teatrale abbia qualcosa a che vedere con il mistero. È una forma di condivisione che unisce attore e spettatore, così come l’improvvisazione che ti permette di dare un significato a quello che stai facendo attraverso lo sguardo dell’altro, e più tutto questo avviene a prescindere dai contenuti, e addirittura a prescindere dalle forme, più avviene allo stato puro. Sono quei piccoli miracoli per cui per me ha senso continuare ad andare in scena.
O.R.: Qual è la prima cosa che ti viene in mente pensando alla tua vittoria del Premio Speciale Ubu 2018?
A.C.: Il vero premio è riuscire a sopravvivere col proprio lavoro e sentirti apprezzato nei luoghi in cui vai e dalle persone che incontri, che nel mio caso sono per due terzi spazi tutt’altro che ufficiali e spettatori che non sanno neanche cosa sia un premio Ubu. Per il resto, il nostro ambiente è fin troppo pieno, in maniera quasi sistemica, di premi e di concorsi. Riconoscimenti vari il cui scopo recondito è conferire una posizione di prestigio a chi si arroga il potere di elargirli, ma soprattutto rassegne furbette dove le giovani compagnie vanno in scena a loro spese con la promessa di una presunta visibilità e, al vincitore, al massimo un mezzo cachet risicato, e che servono a organizzatori senza scrupoli e spesso anche ben sostenuti da fondi ministeriali e regionali per creare stagioni teatrali a costo zero e magari anche ammantarsi di una aura di mecenatismo e sostegno al nuovo che avanza. Ciò detto il premio Ubu mi ha ovviamente fatto piacere e persino un po’ commosso. Alla fine, è un riconoscimento che mi arriva inaspettato da un mondo che ho sempre frequentato poco e che pensavo in gran parte neanche mi conoscesse, figurati riconoscermi, e dunque non posso che accettarlo come un regalo gradito. E magari sperare che mi faccia vendere qualche spettacolo in più. Per ora direi che sono aumentate soprattutto le interviste.