È un testo del drammaturgo norvegese Jon Fosse quello andato in scena al Teatro Argot Studio di Roma dal 26 al 31 Marzo 2019. Uno spettacolo di Thea Dellavalle (che ha curato anche la traduzione) e Irene Petris, progetto realizzato in collaborazione con il Centro Teatrale Mamimò e con la partecipazione di G.U.P. Alcaro, musiche di Paolo Spaccamonti, luci di Paolo Pollo Rodighiero.
Articolo di Virginia Veltri
«Distanziarsi emotivamente da una relazione,
come quando sai che il tuo cane sta morendo e prendi le distanze perché non sia emotivamente devastante».
Molte parole, nessuna di così grande importanza, quelle frasi fatte che diciamo in alcune occasioni: si parla del tempo, si chiede se tutto va bene e ovviamente la risposta è sì, sì, ancora sì, innumerevoli volte annuisce il ragazzo che nella prima scena appare disteso sopra una delle tre panche bianche che decorano uno spazio buio, scarno. Dovremmo riuscire a scorgere l’interno di una casa, ma c’è poco di accogliente in ciò che osserviamo, superfici lisce, dure, in bianco e nero. Sul fondale vengono proiettate didascalie, i sottotitoli di una di quelle narrazioni che fin dall’inizio non lasciano presagire nulla di buono. Una ciotola vuota, lasciata lì, nell’angolo sinistro della scena, il senso di una mancanza, qualcosa non torna, qualcuno non tornerà più, la verità è sospesa, forse meglio non pensarci, ma questa è già sotto gli occhi di tutti, se ne percepisce il sospetto.
Rumori familiari, l’aspirapolvere, una madre fa il suo ingresso donando colore alla stanza, uno scorcio di vita domestica, il ragazzo giace ancora sulla panca, immobile, impassibile, la madre lo sprona al fare, all’agire, andare a comprare il caffè, cercare il cane che è fuggito. È una donna indaffarata nelle pulizie, in gesti privi di utilità, gonfia palloncini colorati; «Fra poco arriverà tua sorella»: cerca il dialogo, ma che cosa dice realmente? Un susseguirsi di frasi già dette, già sentite portano avanti la narrazione, ogni aggiunta è una nuova scoperta, anche se scontata e ancora il ripetersi di quando detto prima: «il cane è fuggito», «non lo fa mai», «bisogna comprare il caffè», «fai qualcosa», «sta arrivando tua sorella con il marito», «comprare il caffè», «è tanto che tua sorella non torna a casa», «comprare il caffè», «alzati e vai a cercare il cane». Conversazioni ripetitive, un vuoto comunicativo che aleggia in tutto lo spettacolo.
La questione è semplice: un ragazzo arriva a uccidere il proprio vicino perché ha ucciso il suo cane. Ma è veramente questo il succo della storia? Possiamo forse definirlo un pretesto per dare senso a una vana attesa, momenti sospesi, ma anche lunghe pause fra le parole, queste sono la vera comunicazione dello spettacolo, il significato profondo di una serie di pseudo dialoghi: l’incomunicabilità.
Entra in scena un vecchio amico d’infanzia, lui e il ragazzo sulla panca sono cresciuti insieme pescando sui fiordi, eppure nulla da dire, che cos’hanno in comune ormai? Solo una camicia a quadri rossa, uno ha avuto successo nella vita, un lavoro in città e un monolocale, l’altro si accontenta della semplice vita di paese, guarda il mondo esterno da una finestra immaginaria. È chiaro, il ragazzo sta aspettando il suo cane ma osservando la realtà esterna da quella finestra non guarda fuori, i suoi occhi scrutano gli spettatori uno ad uno, un interrogativo forse? O magari una certezza, il restare inermi per non affrontare la triste realtà, non andare a cercare il cane per paura, per prolungare l’attesa di un dolore che prima o poi arriverà, ma meglio poi che prima.
L’ennesimo scorcio grottesco di vita familiare: un filo di palloncini colorati appeso sulla testa di tre figure, una sorella appena arrivata, suo fratello e la madre sorridente. Le panche bianche sono state spostate in diagonale, come a rendere l’ambiente più accogliente, ma la loro durezza e scomodità permane, rispecchiandosi in quei sorrisi vuoti, nell’accennare a dire qualcosa, una novità, un’intuizione per rompere il ghiaccio, ancora una volta la mancanza di contenuto, il ripetersi degli stessi argomenti: il cane è fuggito, dovresti cercarlo, dovresti ricominciare a suonare la chitarra; una certezza da parte della sorella, in quel luogo è tutto come una volta. E ancora nulla da dire.
Un avvenimento rompe la routine, il marito della sorella era andato a parlare con il vicino di casa, rientrando comunica il fattaccio: il cane è stato ucciso, giace in giardino in una busta di plastica. Il ragazzo fugge fuori e nella casa delle circostanze ancora un dire scontato, cercare di andare oltre la situazione, cosa fare dopo, dispiacersi sì, atto efferato certo, ma è solo un cane. È nel momento in cui il ragazzo rientra in scena con una pesante busta di plastica nera che restiamo con il fiato sospeso, quasi disgustati, eccolo il protagonista, perenne assente della vicenda, che si fa presenza fisica quando tutto è già compiuto. La morte del cane era prevedibile, eppure è in questo momento che non può più essere negata, è davanti ai nostri occhi e fra le braccia del ragazzo che non ha più scuse, nessun pretesto per restare inerme. Finalmente l’azione, fino a quel momento aveva pronunciato poche parole, qualche accenno, eppure forte era la sua presenza fisica, non ha mai smesso di guardare fuori dalla finestra o scrutare noi. Un gesto si compie, più eloquente di qualsiasi conversazione, con una piccola zappa nella mano e un’energia brutale il ragazzo squarcia, dilania la busta nera, ne fuoriesce terra, è la realtà che incombe, quella esterna, che lacera un ambiente tenuto puro e casto a tutti i costi. Questo è probabilmente l’unico momento dello spettacolo in cui non c’è dialogo ma la sua azione dice tutto, più di quanto detto in precedenza. Un gesto con il quale scava la tomba, lascia fluire la rabbia, si esprime in movimento, resta con le mani sporche, il volto putrido, metabolizza quanto accaduto e ancora, con quell’unico gesto, ne risponde: uccide il vicino.
Due omicidi dunque, quello di un cane e di una persona, quale fra i due il più grave? Eppure la domanda non è questa, non è necessario cercare uno schieramento, la gravità sta nell’incapacità del dialogo, anche quello familiare, lasciare cose non dette, cambiare argomento. Siamo capaci di parlare tanto, ma quanto significato profondo contengono le nostre parole? Se è schierarsi ciò che viene chiesto allora dovremmo farlo con noi stessi, fare i conti con la paura, affrontare ciò che non abbiamo il coraggio di ammettere e infine godere della bellezza di guardare qualcuno negli occhi. Per tutto lo spettacolo nessun contatto umano, neanche un abbraccio fra madre e figlio, figlia, cognato, in quell’incomunicabilità se ne percepiva la mancanza, la necessità, ulteriore conferma di quanto le parole, talvolta, possano essere vuote e un gesto, uno sguardo, un tocco invece carichi di senso profondo. Uno spettacolo apprezzato per la sua semplicità, capacità di lasciar scrutare l’assenza, il significato nei silenzi, la presenza in ciò che non c’è. Di tanto in tanto qualcuno fra il pubblico accennava a una risata, un controsenso forse, se pensiamo all’omicidio, ma probabilmente c’è un riconoscersi nel sentire le battute scontate degli attori. Eppure è proprio davanti alla morte che finalmente si scorge un sorriso sul volto del ragazzo, un peso gli scivola via, lasciandolo a chi resta, al pubblico magari, alla madre ad esempio, niente in quelle ore che vanno dalla mattina al giorno dopo è andato come aveva previsto o maniacalmente organizzato. La casa di questa donna non è più perfetta o forse non lo era neanche prima, una tomba è stata scavata in giardino e si scorge ora un salotto carico di colpe, le tazzine del caffè vuote. Con inquietante ventre materno, perennemente indaffarata nel niente, la madre prepara lo zaino al figlio che sta per essere arrestato, anche in questi casi tutto deve essere perfetto. E ancora una volta nulla da dire.
The Dead Dogs è uno spettacolo che lascia con il fiato sospeso ma non per l’attesa di un finale, quanto più per la curiosità di capire come si possa narrare una vicenda senza nulla da dire, ma facendolo comunque attraverso lunghe pause, sguardi, presenze e assenze. Porta a riflettere sul valore della parola e dei rapporti umani, pochissimi personaggi interpretati da Giuso Cucchiarini (il ragazzo), Federica Fabiani (la madre), Luca Mammoli (il cognato), Irene Petris (la sorella), Alessandro Bay Rossi (l’amico), che partendo da un fatto di cronaca, uno di quelli che ormai è quasi scontato leggere sui giornali, con semplicità donano un riflesso nel quale guardare noi stessi e la società.
Esagerato forse l’inserimento d’immagini forti di cani maltrattati, non certo per una questione morale ma perché è stato un voler rendere forzatamente evidente qualcosa che tutti avevano già compreso, grazie a una perfetta eloquenza del non detto. Spettacolo vincitore del Forever Young 2017/2018 davanti al quale certamente si può restare impassibili o fortemente scossi, un po’ come davanti alla morte di un animale. In fondo è solo un cane, in fondo era un assassino e noi invece cosa vorremmo realmente dire?
THE DEAD DOGS
Di Jon Fosse
Traduzione: Thea Dellavalle
Progetto Thea Dellavalle/Irene Petris
Con: Alessandro Bay Rossi, Giusto Cucchiarini, Federica Fabbiani, Luca Mammoli, Irene Petris
Con la partecipazione di G.U.T. Alcaro
Suono: Claudio Tortorici
Musiche: Paolo Spaccamonti
Luci: Paolo Pollo Rodighiero
Produzione DELLAVALLE/PETRIS, La Corte Ospitale
Con il sostegno di Sementerie Artistiche
In collaborazione con Centro Teatrale MaMiMo’
Spettacolo vincitore Forever Young 2017/2018
La Corte Ospitale