Un Nemico del Popolo, di Henrik Ibsen, prodotto dal Teatro di Roma, per la regia di Massimo Popolizio. Undici attori in scena, fra cui lo stesso regista e Maria Paiato nel ruolo di Peter Stockmann. Al Teatro Argentina come prima nazionale. Ma lo spettacolo è spinto da un sentimento profondo o imposto da un potente ente?
Articolo di Lorenzo Bitetti
Il produttore è spesso quella figura losca che nell’arte vede il suo guadagno. È quella figura che rende prodotto commerciale l’arte, gli dà un valore, crea gerarchie. Tuttavia, è sempre la produzione a fornire un budget così alto che consente di realizzare opere d’arte così costose che nessuno si sognerebbe di fare. E questo budget lo ottiene proprio commercializzando l’arte. Quando una grande produzione vuole investire tanto su un progetto, con la sua mente calcolatrice è normale che punti su un qualcosa di sicuro. Il grande produttore in questione è il Teatro di Roma, Teatro Nazionale, e quel qualcosa di sicuro non può che essere una regia di Massimo Popolizio.
Infatti, non è la prima volta che il Teatro di Roma punta su di lui. Nel 2016 viene prodotto Ragazzi di vita, per la regia appunto di Popolizio, ed è un successo. Questa volta si è optato per un classico, Un nemico del popolo, di Henrik Ibsen. Non è un testo semplice, dramma di fine Ottocento di uno dei drammaturghi più complessi della storia. Il regista afferma di essere prima di tutto un attore e quindi di aver lavorato sugli attori e per gli attori. È una posizione del tutto difendibile, l’attore è l’anima del teatro, senza attore non c’è teatro e come ci insegna Grotowski, non c’è nemmeno bisogno della presenza di un pubblico perché ci sia teatro. Il problema sorge se si considera il prodotto che ne esce fuori. Il lavoro degli attori si vede tutto, tutti molto bravi, una presenza scenica senza difetti, movimenti tutti corretti, alcuni coordinati alla perfezione; ottima l’interpretazione di Maria Paiato nel ruolo di Peter Stockmann, il sindaco, ed è bello vedere sempre più donne in ruoli maschili, ma lo spettacolo non va oltre. Il problema principale di questo spettacolo è che ci sono solo gli attori e mancano completamente sia i personaggi, sia una regia.
Posto l’alto livello del gruppo attoriale, i personaggi sembrano essere trattati senza sensibilità, quasi fossero delle maschere finalizzate a mostrare la bravura dell’attore. Per questo lo spettacolo nel complesso risulta freddo e piatto. Il testo è stato molto ridotto e alcuni personaggi, importanti ai fini della storia, completamente tagliati. Azione fatta col fine di semplificare la fruibilità del testo a un pubblico moderno, solo che il lavoro non viene svolto con la giusta sensibilità. I costumi sono anch’essi discutibili. C’è una contrapposizione fra il bianco del Dottor Stockmann e il nero degli altri personaggi, evidente nella prima parte, ma poi anche il dottore si veste di nero, il ché vanifica il messaggio mandato precedentemente, poiché il protagonista non ha evoluzioni per cui cambia il proprio pensiero, giustificando il cambio di colore. Solo Morten Kiil ha un costume diverso, ma non se ne capisce il motivo.
Un’altra questione che non si capisce è l’ambientazione americana. Popolizio afferma di aver voluto un’ambientazione blues, in un’America degli anni Venti, per creare una terza istanza e dire che quello che succede non è solo in Norvegia nell’Ottocento, ma è ovunque, in ogni momento della storia. È un problema registico il fatto che lo spettacolo non dica mai che ci troviamo in America, che le battute non vi alludano espressamente, poiché tutti i riferimenti che vengono espressi sono legati alla Norvegia di Ibsen. L’ambientazione blues è scambiata invece con un’ambientazione molto country e western. Non sussiste nemmeno il motivo di creare una terza istanza, perché quella vien da sé portando un testo ottocentesco norvegese in scena in Italia nel 2019.
In conclusione, Popolizio si conferma un grande attore, e insieme a lui tutta la compagnia dimostra un alto livello, ma lo spettacolo è orfano di regia e gli attori sovrastano i personaggi fino a farli sparire dalla scena.
UN NEMICO DEL POPOLO
di Henrik Ibsen
regia Massimo Popolizio
traduzione Luigi Squarzina
con Massimo Popolizio e Maria Paiato
e con Tommaso Cardarelli, Francesca Ciocchetti, Martin Chishimba, Maria Laila Fernandez, Paolo Musio, Michele Nani, Francesco Bolo Rossini, Dario Battaglia, Cosimo Frascella, Alessandro Minati, Duilio Paciello, Gabriele Zecchiaroli
scene Marco Rossi
costumi Gianluca Sbicca
luci Luigi Biondi
suono Maurizio Capitini
video Igor Renzetti e Lorenzo Bruno
assistente alla regia Giacomo Bisordi
Produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale