All’interno della rassegna Over-Emergenze Teatrali, Per fare il teatro che ho sognato incontra UnterWasser, la compagnia di teatro di figura di Valeria Bianchi, Aurora Buzzetti e Giulia De Canio.
Articolo di Alessia Pivotto
Sono trascorsi circa cinque anni da quando UnterWasser partecipò alla seconda edizione di Per fare il teatro che ho sognato presentandoci Out, fiaba che narra il metaforico viaggio di scoperta, intrapreso da ognuno di noi, delle bellezze e contraddizioni del mondo. Maze è l’ultima creazione portata in scena l’undici maggio, in anteprima, al Teatro Argot Studio. Maze è il poetico richiamo alla dimensione esistenziale dell’individuo, all’immaginazione che orienta e organizza la realtà. Nella performance di UnterWasser si disegna con la materia, le sculture in fil di ferro di Maze, sono presentate come chiaro rimando alla produzione di Calder, alla linea continua di Steinberg che incontra l’eleganza di Modigliani. Sul palco la tridimensionalità degli oggetti e i tre corpi delle performer, sullo schermo la rappresentazione poetica, onirica, archetipa della vita. La tecnica narrativa sembra essere quella del flusso di coscienza, una storia in divenire che racconta la nascita di un individuo, il suo sperimentare e prender coscienza delle regole sociali, il distacco dal reale, l’assenza momentanea e sognante o quella definitiva. La colonna sonora è drammaturgicamente concepita come elemento imprescindibile per la definizione e comprensione delle situazioni proiettate sullo schermo; sono composizioni musicali originali, presenti per tutta la durata dello spettacolo. Valeria Bianchi, Aurora Buzzetti, Giulia De Canio si spostano da un punto all’altro del palcoscenico, silenziose e precise, utilizzando costruzioni artigianali di diverso materiale, per produrre il filmato d’ombre a cui assistiamo. È uno spettacolo dove il linguaggio è immagine, suono, luce; lo spettatore può immergersi in una dimensione altra, che rende possibile e osservabile la simultaneità tra processo creativo e risultante estetico. «Sott’acqua la voce non ha lingua, le parole diventano suono e i significati si colgono con gli occhi».
Abbiamo intervistato la compagnia nella romantica cornice della nuova sede della storica libreria Zalib, in Via della Penitenza a Trastevere.
Maze si colloca in una nuova fase di ricerca sull’immagine rispetto a Out; cos’è cambiato a livello creativo e produttivo?
Eravamo e siamo produttivamente indipendenti. In entrambe le produzioni il lavoro è stato frutto di un’esigenza, frutto di periodi di pensiero e scrittura, di sperimentazione su materiali fine a se stessa. In Maze l’idea era di lavorare sulla proiezione, abbiamo concentrato la ricerca sull’ombra, sperimentando la tridimensionalità degli oggetti. In questo caso lo spettacolo è stato indirizzato più agli adulti, Out utilizzava un linguaggio strutturato più sullo scenario dell’infanzia. Entrambi partono da intuizioni e tematiche, in Out dalla sperimentazione sull’oggetto nasce il personaggio e dal personaggio la storia. Non partiamo da un testo né da una storia precisa, è l’immaginario che si trasforma in resa. Con Out non abbiamo lavorato in residenza, con Maze abbiamo lavorato con residenze off rispetto al circuito italiano perché abbiamo scoperto che non puoi chiedere una residenza quando ti serve.
Cosa comporta lavorare in residenza?
Concentrazione di energie rispetto al periodo che hai a disposizione. Reciproco scambio di idee e competenze, prove aperte con il pubblico che aprono connessioni con altre realtà. Il problema è che spesso devi richiederla un anno prima, quando magari ancora non c’è il progetto. Noi abbiamo vinto un bando con Teatro del Lavoro, che si occupa di residenze di teatro di figura, ma quell’anno non erano previsti finanziamenti. Alcune residenze danno un sostegno alla produzione, altre prevedono un rimborso. La difficoltà maggiore a livello economico è coprire le spese per la richiesta di agibilità, per ognuna di noi e per tutti i quindici giorni.
Cosa comporta essere produttivamente indipendenti?
La prima volta che abbiamo lavorato insieme è stato con una grande produzione ed è stato un fallimento. Le produzioni trovano il modo di darti meno scritturandoti sotto altre voci, a noi è capitato di essere scritturate come «allieve tecniche di scena» per 30 euro al giorno. Non c’è solidarietà tra artisti, che porti a un rifiuto di queste condizioni. Essendo indipendenti non siamo tenute a produrre niente, i nostri spettacoli devono necessariamente girare. Non siamo costituite in associazione, ci occupiamo personalmente di organizzazione, creazione, produzione e vendita. A livello amministrativo ci appoggiamo a SMART (Società Mutualistica per Artisti). Non abbiamo un nostro spazio ma effettivamente gestire anche quello sarebbe complicato. Sappiamo che per le produzioni è importante che una compagnia in qualche modo sia indipendente, noi vogliamo esserlo ma con un minimo di sostegno. Vogliamo mantenere il nome della compagnia che anche se non è associazione è realtà. Infine possiamo stabilire noi dei cachet a seconda degli spettacoli e dei luoghi.
Il rapporto con l’estero com’è stato?
Non abbiamo avuto problemi, l’unica trattativa difficile è stata quella con la Cina, di Out a Shanghai, è durata mesi. Siamo state lì un mese, il teatro aveva centoventi posti e ospitava solo spettacoli stranieri. Al momento stiamo cercando un venditore estero, le realtà teatrali non ti prendono in considerazione se non hai una figura preposta. Se non hai un venditore, un modo efficace per avere visibilità e contatti è quello di partecipare alle vetrine, festival di teatro per ragazzi. Un sistema alternativo che sta funzionando è In-Box, rete di sostegno del teatro emergente italiano.
UnterWasser è sostenuto economicamente da SMART, non esiste come ente giuridico, non ha un conto in banca. Vivete dei vostri spettacoli?
Sì. Le prove non ce le paghiamo, sappiamo che nel periodo di autoproduzione dobbiamo stare attente al minimo dettaglio per quanto riguarda le spese, però riusciamo a vivere della vendita degli spettacoli. Out, per esempio, è stato portato in tournée per tre anni. Per poter girare agilmente facciamo in modo che i nostri spettacoli abbiano scenografie leggere, siano facilmente trasportabili in valigie e siano senza parole, così da superare le barriere linguistiche e risultare universali.