Al Teatro Ventidio Basso, ad Ascoli Piceno, uno dei progetti speciali de I Teatri del Sacro indaga il rapporto tra due linguaggi apparentemente antitetici come quello ‘ndranghetista e quello cattolico, l’utilizzo dell’immaginario religioso in funzione del mantenimento di un sistema di potere sul territorio. Acquasantissima di URA teatro aderisce pienamente a quella spinta operativa promossa dal tema di questa VI edizione, con un accuratissimo lavoro drammaturgico e attoriale.
Articolo di Eva Corbari
Un uomo su una sedia, in un monologo per voce profonda, come una caverna che si svela in un corpo sottile, l’andamento narrativo rotto da momenti più feroci, una durezza scalfita dalla luce improvvisa, dall’ombra la natura brutale di chi si vuole conservare, e poi la raucedine della debolezza, della vecchiaia. Don Salvatore si rivela in Fabrizio Pugliese tramite l’essenzialità dei gesti, la potenza dei segni (quei fazzoletti annodati, bianchi, allineati), la scena pulita, la chiarezza del testo (di Pugliese stesso e di Francesco Aiello). Grazie a una costruzione drammaturgica che svela il male implicitamente, la spiegazione di dinamiche comunicative sottilissime e taciute si priva di accenti didascalici e di qualsiasi pretesa di giudizio; l’etica non è sospesa, ma si fa efficacia politica, presa di posizione che non impone soluzioni, ma racconta.
Don Salvatore è peccatore (per la società civile) che deve “ammonire” un altro peccatore (per la mafia), un padrino che deve scegliere fra le ragioni d’onore e quelle del sangue, salvando il figlioccio che ha cresciuto o consegnandolo alla sua condanna: il giovane per non essere stato invitato a un matrimonio ha ucciso lo sposo e violentato la sposa alla cerimonia, figlio di quella nuova generazione malavitosa che stenta a riconoscere l’antico sistema di potere e punta ad ampliare i livelli di collusione e di guadagno immediato, a gestire lo spaccio di cocaina (che consuma, anche). Il sistema si sta crepando, gli insegnamenti “sacri” non valgono più, né le norme di comportamento che auto-legittimano la violenza; il delitto è così rumoroso da turbare l’ordine dei clan, esporli alle indagini e costringere le istituzioni (la chiesa su tutte) a riconoscerne la presenza.
L’elemento del dubbio, della crisi, come incrina qualsiasi dogma, qui fa trapelare come il radicamento della ’ndrangheta sul territorio si sia retto su una simbologia religiosa, che fa presa sulla popolazione perché vi è immersa, perché ad essa famigliare, culturalmente comprensibile: questa mafia opera sul territorio facendo fronte con la sua modalità delittuosa ai bisogni primari e quotidiani dei cittadini e conservandosi in un sistema chiuso, s’infiltra laddove la società civile è percepita come assente, uccide quando “deve”: «non è stato un omicidio, ma un sacrificio per ordine superiore e sono sicuro che Dio mi perdonerà», sentenzia il padrino. I sistemi di potere deformano, semplificano linguaggi accessibili più che per giustificare il loro operato, per poterne mantenere la stabilità, in silenzio: non c’è giustizia, né lotta per i deboli nella loro “predica”, ma auto-conservazione. La norma ritualizzata evita la guerra, fa sistema e lo tramanda e, soprattutto, amplia il divario tra classi “dirigenti” e sottomessi.
La riflessione si allarga ai meccanismi comunicativi propri dei sistemi di potere che distorcono la verità, la inquinano riferendosi ad un immaginario facile da manipolare. Senza essere reportage, né lezione, né denuncia, essa si dota della forza dell’esperienza diretta, della carne: Fabrizio Pugliese ripesca dalla memoria innanzitutto personale le dinamiche di un mondo quotidiano per chi in quella realtà ha vissuto, perché l’argomento non sia più, tristemente, scontato. La ricerca che ha portato all’esito solleva il problema dalla polvere del “sentito dire”, senza porsi come punto di vista: l’immediatezza dell’incarnazione porta ad una presa di coscienza, lasciando al teatro il potere di «cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio».
ACQUASANTISSIMA
Testo Francesco Aiello, Fabrizio Pugliese
diretto e interpretato da Fabrizio Pugliese
musiche Remo Da Vico
collaborazione alla regia Francesco Aiello
si ringrazia Specchi Sonori (Nidi Teatrali) di Osimo, Scena Verticale (Primavera dei Teatri) di Castrovillari
Ho visto lo spettacolo ad Ascoli e sono rimasto piacevolmente colpito, non ti rendi conto del tempo che passa, avrei gradito alcuni momenti poetici in più ! Credo che il compositore si chiami Remo De Vico.