Una cronaca da Castiglioncello in Toscana, dove dal 25 giugno al 7 luglio si anima il festival fiero e tenace di Inequilibrio, quest’anno alla sua ventiduesima edizione. Un avamposto della cultura benevolo e militante: prima che un luogo d’arte e un luogo di teatro, un luogo di scambio nel deserto comunicativo di questo tempo.
Articolo di Doralice Pezzola
Sulla strada per il festival Inequilibrio 22 a Castiglioncello, mentre aspetto di arrivare a Termini in tram, una signora di ottant’anni esce in retromarcia dal suo garage, affacciato sui binari. L’autista suona lungamente e frena ma la signora non sente e la macchina è troppo vicina: il tram impatta con il portabagagli mandando il vetro in frantumi. La signora esce dalla macchina, illesa e pietrificata dallo spavento. Subito, all’interno dello scompartimento, si verificano questi fatti in concatenazione: 1) l’autista esce dall’abitacolo e le fa un gesto a mani giunte come a dire «ah signo’!». 2) Un uomo sulla cinquantina cercando la compiacenza dei co-passeggeri gira la testa di qua e di là e abbaia così all’indirizzo dell’ottuagenaria, che non può sentirlo: «Se non la sai guidà la macchina restatene a casa! A casa devi restare! A casa!». 3) Un uomo in abito da lavoro con una valigia e una ventiquattrore comincia sdegnato e insofferente a lamentare l’inevitabile ritardo. 4) Un ragazzo sui sedici anni sporge il telefono dal finestrino per riprendere il sensazionale accaduto.
Arrivo a Castiglioncello, e penso a ripenso a tutte le scene come questa (magari senza tram e portabagagli in frantumi) che ho visto negli ultimi anni ripetersi per le strade di Roma stanca e mortificata, o per quelle di altre città. Mi chiedo se infine non aveva davvero ragione Susan Sontag quando in Sulla fotografia denunciava il pericolo dell’assuefazione alle immagini di violenza, che è proprio quello di diventare man mano, inesorabilmente, incapaci di reagire in tempo reale agli avvenimenti, e agli altri. In un mondo di immagini brulicanti e moltiplicate, sempre più ricco di intrattenimento e sempre più povero di luoghi di incontro, quel pericolo pare ormai una realtà tangibilissima, che ha occhi miopi, bocche esasperate e cuori pavidi e feriti, pronti a tutto per proteggersi dall’impatto con l’Altro.
Così, mentre per la prima volta attraverso il bosco per arrivare a Castello Pasquini, mi colpisce in maniera concreta, lucida e lampante la necessità profonda che negli anni ha reso questo festival un avamposto della cultura benevolo e militante. Inequilibrio è, prima che un luogo d’arte e un luogo di teatro, un luogo di scambio nel deserto comunicativo di questo tempo, un porto salvo nella quotidianità arida e infestante di tante esistenze estenuate. Una festa del pensiero che viaggia con l’amalgama impazzito delle anime di questo Paese, e dall’interno suggerisce, con costanza e resilienza, una prospettiva poetica per guardare al mondo.
Ecco allora il senso di una frase che ricorre nelle parole di Fabio Masi – co-direttore del festival assieme ad Angela Fumarola – quando citando Claudio Morganti, dice: «vogliamo trattenere, non intrattenere». Il risultato è un festival che non si organizza per fare vetrina del lavoro degli artisti – o meglio, non soltanto – quanto piuttosto per attivare circuiti di dialogo, per darsi modo di esplorare i territori di sovversione dell’ordine costituito, dei suoi modi e dei suoi tempi. Una piccola roccia solida piantata in mezzo alla corrente, che permette a chi vi si trovi sotto riparato di fermarsi a guardare come e perché tutto scorre intorno.
Quella che pare animare questi dodici giorni di teatro, discorsi, incontri, è soprattutto la volontà di immaginare altre regole per l’incontro fra un artista e i suoi spettatori, ed è evidente già dalla scelta degli spettacoli che hanno composto il programma di quest’anno. Qui trovano il loro posto, vicino a nomi come Giuliano Scabia e Marcello Sambati, opere che riscrivono le leggi dello spazio scenico come la Medea per strada di Teatro dei Borgia, in cui (la superlativa) Elena Cotugno accompagna otto spettatori nel viaggio di una Medea contemporanea a bordo di un furgoncino tre per due, o Archeologia del coraggio di Elena Guerrini, che si svolge interamente in acqua, o ancora AttiKa, progetto di Industria Indipendente (Martina Ruggeri e Erika Z. Galli) con Annamaria Ajmone, che invita il pubblico a «ri-ragionare sulla sua posizione: come stai, come osservi, come ascolti, come esisti». E ancora Gli orbi di Abbondanza/Bertoni, la collaborazione di Davide Valrosso con i tre danzatori indiani della compagnia Attakkalaridi Bangalore, l’energia clamorosa ed epilettica delle quattro danzatrici coreane in A silver knife, la complessità misteriosa e stratificata di TU ovvero chi è questa stronza? di Gemma H Carbone e Riccardo Festa, l’intelligenza sottile e irriverente di Silvia Gribaudi nel nuovo Graces e quella tragica del rarefatto Avalanche di Marco D’Agostin (opere di cui si dirà altrove).
Forse alla fine, nell’Italia di questi giorni, Inequilibrio sembra davvero un piccolo miracolo boschivo e sospeso, quasi il racconto impossibile di un modo diverso di vivere il teatro, l’arte, l’altro. E allora il suo merito, la sua importanza fondamentale, sta proprio in quell’incantesimo puntuale con cui, di anno in anno, ci riporta nel sogno sempre nuovo di un presente diverso, possibile, dove magari qualcuno scendendo dal tram possa immaginarsi di chiedere a una signora tramortita di spavento se, per caso, ha bisogno di aiuto.
Bellissimo articolo sul teatro, sulla comunicazione, sulle persone. Gradevole ma scoccato come una freccia centra il cuore dei problemi. Scritto con la personale maestria di sempre. Grazie Doralice