Teatri del Sacro 2019: Settanta volte sette

Riconciliarsi. Con i propri errori, con le mancanze, con le colpe, anche le più gravi, come quella di aver ammazzato un coetaneo a bottigliate, fratello di qualcun altro, amico, figlio. Collettivo Controcanto, con il suo debutto a I Teatri del Sacro, annulla la distinzione tra perdono cristiano e perdono laico con l’accesso ad una dimensione puramente umana. Settanta volte sette risponde alla tematica del festival mostrando la possibilità di cambiamento che nasce dalla fragilità.

Articolo di Eva Corbari

Non tutto il pubblico di Ascoli Piceno conosce la modalità creativa del Collettivo, non le signore sulle panche o gli adolescenti con i genitori… a guardarli piangere, lentamente, mentre anche Clara Sancricca (sua la regia) si commuove all’applauso, viene da chiedersi quale fatto sia accaduto, come i piani di artista e spettatore si siano livellati in una commozione silenziosa, a quale dispositivo ascrivere tale empatia. La scrittura collettiva è modalità produttiva della compagnia, l’addensarsi di momenti creativi che ruotano attorno ad un tema guida e si sviluppano per improvvisazioni e montaggi è un “marchio di fabbrica” ben rodato. Per un gruppo con una poetica già forte, le idee chiare su un’impronta distintiva che li caratterizzi, senza diventare canone o forma prestabilita, la tematica di Settanta volte setteapre all’imprevedibilità dell’incontro e spiazza; grazie al rispetto, al pudore si potrebbe dire, con il quale i sei ragazzi (oltre a Clara, Federico CianciarusoRiccardo Finocchio, Martina GiovanettiAndrea MammarellaEmanuele Pilonero) s’affiancano a una storia che non è la loro, ciò che va in scena è l’autenticità dell’imperfezione umana, l’apertura all’incertezza.  

Nessuno di questi familiari ha la parvenza di personaggio: un ragazzo che a una serata qualunque ammazza un coetaneo, senza un motivo, si ritrova in cella con due compagni, ad alleggerire la tensione con qualche risata, un quotidiano che si ripete, con la paura della condanna e le cura di una sorella, che chiede perdono al fratello del morto, la cui rabbia si stempera tra le braccia della compagna. Il loro romano schietto, altro “marchio di fabbrica”, qui è persino inevitabile, disegna un tessuto sociale e personale: solo così riescono ad amare, a consolare, non c’è un’altra lingua nemmeno per soffrire. Liberi da ogni cliché, essi vivono in presa diretta e piano piano diventano, si trasformano.

Parlare di realismo sarebbe riduttivo, di “impronta cinematografica” incompleto; se indubbiamente la recitazione è poco marcata, la voce delicata (microfonata per necessità), i gesti minimi non rimandano a una convenzione accademica, però nessuna di queste persone esisterebbe al di fuori della prossimità del teatro: la vicinanza degli sguardi, il tocco che sembra sfiorare e invece accarezza per davvero, lo spazio fluido in cui i protagonisti si spostano, creando quadri in sequenza dall’immobilità. I letti che diventano panche, un televisore invisibile, un tavolo da cucina che è sala per i colloqui in carcere e San Pietro in Castello, chiesa sconsacrata-teatro che fa da scrigno e sospende dalla realtà ciò che contiene… tutto è protetto e delicato allo stesso tempo: come il legno, le vite di questi ragazzi, la colpa e il perdono. 

Le relazioni in scena, pronte a spezzarsi eppure così solide, perché gli equilibri fragilissimi che le  minacciano rendono ognuno di loro pienamente presente all’altro. La concretezza, la fisicità che salva dalla tentazione di vendetta si realizza lì, in un tempo sospeso che fonde memoria e presente in possibilità di conciliazione, ma può contagiare tutti coloro che portano appresso pezzi di vita in sospeso, chi conosce la difficoltà di guardare avanti, di perdonare se stessi. «Ha fatto una cosa difficilissima», dice Paola al suo fidanzato, quando riceve la lettera di scuse; «una cosa inutile», ribatte lui, ancora impreparato a comprendere. Il titolo ricalca un verso del Vangelo, ma qui non si trova fede assoluta che, spesso, rende il perdono un dovere, bensì dubbio, vulnerabilità. Su un confine così delicato, per non scucire le ferite, bisogna fare appello a un linguaggio che suggerisca e non rappresenti la morte, il senso di colpa, l’amore ferito. Domare le passioni in un mondo di emotività, colpire alla pancia attraverso la verità, potenziare il potere rigenerativo dei sentimenti; niente di quello che si vede sa di buonismo, il fiato si sospende davvero, all’incrociarsi finale delle mani di chi ha causato dolore e di chi l’ha patito. Non si chiude una storia, s’inizia un cammino.

SETTANTA VOLTE SETTE

drammaturgia originale Controcanto Collettivo

ideazione e regia Clara Sancricca

con Federico Cianciaruso, Riccardo Finocchio, Martina Giovanetti, Andrea Mammarella, Emanuele Pilonero, Clara Sancricca

voce fuori campo Giorgio Stefanori

scenografia e costumi Controcanto Collettivo con Antonia D’Orsi

disegno luci Cristiano Di Nicola

foto di scena Simone Galli | Atlas fotografie

organizzazione Gianni Parrella

in coproduzione con Progetto Goldstein

con il sostegno di Straligut Teatro, Murmuris, ACS – Abruzzo Circuito Spettacolo, Verdeco-prente Re.Te. 2017

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