Le tre giornate di Convegno Internazionale di Studi promosso dal Saras dell’Università di Roma Sapienza hanno visto confrontarsi diverse professionalità in campo di studi teatrali e di pratiche sceniche sul titolo Pedagogy and Applied Theatre – La pedagogia nel teatro sociale. Un confronto proficuo tra teoria storiografica, ricerca in fieri e pratica, dove materia e modalità di indagine si scoprono accomunati più che da posizioni definite, da una rete di riferimenti trasversali e da una operatività che nasce dal «tradimento» delle certezze.
Articolo di Eva Corbari
Proprio alla tradizione dei saperi teatrali (questo verbo, tradere, così denso di contraddizioni) si riferisce Guido di Palma, membro del comitato scientifico insieme ad Aleksandra Jovicevic, Stefano Locatelli e Andrea Porcheddu, e tra i curatori (con Cecilia Carponi, Noemi Massarie Irene Scaturro), quando sostiene che «ciò che conta di più non è la fedeltà, ma l’infedeltà». Questo spirito si concretizza nella scelta di strutturare gli incontri tra mattinate più teoriche e pomeriggi di dimostrazioni pratiche: nel rifiutare la tendenza normativa della storiografia e la pretesa di esattezza della ricerca umanistica (e vi si comprendono le scienze umane di più recente tradizione, forse peccando di superficialità) i paradigmi teorici, nelle due declinazioni di analisi e competenza sul campo, si mettono alla prova con la carne umana.
In Aula Levi, presso le Ex-Vetrerie Sciarra, si relaziona sulla storia e i modelli nella formazione teatrale a partire dalle più innovative pedagogie di primo Novecento fino a una tavola rotonda sul teatro di comunità (e si apre il dibattito sulla natura di questo concetto), si discute (animatamente, per fortuna) il rapporto tra la pedagogia delle Accademie e il teatro sociale, e si sonda lo stato delle ricerche svolte nei contesti più operativi della formazione per il teatro sociale (con attenzione al valore della professionalizzazione). Poi al Teatro Abarico, un luogo che Copeau avrebbe chiamato «la nostra piccola scatola» (come definisce il Vieux Colombier)Gabriele Vacis racconta dei ragazzi del suo Istituto di Pratiche Teatrali per la Cura della persona, Alessandro Garzella offre un Canto d’amore alla follia con Francesca Mainetti (uno spettacolo tra poesia e viscere, sull’eros e sulla radice animale delle pulsioni) poi guida alcuni studenti del Dipartimento in un assaggio di esercizi laboratoriali e ancora Antonio Viganò porta la sua Ribalta, Theodor Rawyler fa danzare le signore dei laboratori di danza sociale insieme ai volontari dalla platea, dimostrandone l’efficacia terapeutica. Qui si dialoga con chi, dal carcere di Rebibbia, ha dedicato al teatro la sua libertà, nel lavoro che Valentina Esposito svolge con la compagnia Fort Apache Cinema Teatro e si conosce la tradizione delle “guarattelle” di Bruno Leone.
Attraverso la linea di sapere e militanza, le attività così integrate hanno assunto la dimensione prolifica di cantiere e il potenziale della partecipazione. Interlocutori di più diversa provenienza (partecipano le Università di Napoli, Padova, Torino, Pavia, la Ca’ Foscari di Venezia, la Cattolica del Sacro Cuore di Milano, l’Université Grenoble-Alpes, l’Université Sorbonne Nouvelle di Parigi, l’Università del Peloponneso) e varia specializzazione (Teatro in Carcere, teatro in contesti di cura, con i migranti, Teatro dell’Oppresso) trovano il loro punto di partenza nel vissuto umano, nelle esperienze: così, il presupposto condiviso si scopre lontano da risposte prestabilite e aperto a interrogare il presente. L’autorevolezza degli studi (sulle pedagogie di Craig, Copeau e Saint-Denis, Delsarte, Jacques-Dalcroze…) o delle istituzioni (presenti tutte le principali Scuole nazionali d’Arte Drammatica) si affianca all’urgenza della dialettica e a sguardi laterali fatti di rimandi, fenomeni di lunga durata: il rapporto passato-presente così torna vivo, perché ad essere costante è la prospettiva sull’uomo.
Quei registi-pedagoghi di primo Novecento appaiono persone, con i fallimenti di chi, pur essendo immerso nel proprio tempo, si proietta nel futuro. Nel ricercare nodi che afferrino il fermento di quella modernità in cui il Teatro non rispondeva a esigenze vitalie il pubblico andava ricreato, lo sguardo si sposta tra gli studenti sul palco che sperimentano un linguaggio, alla platea che fa gruppo, si confronta. La situazione culturale contemporanea che appiattisce le differenze in tendenze di consumo, la “religione del singolo”, un tessuto sociale frammentato… pongono di fronte a una responsabilità etica e politica di chi studia e fa teatro, in quanto arte del contatto tra presenze. Per aprire ponti di comunicazione interrotti, emerge la necessità di mettere in discussione una cultura teatrale, da un cambiamento dei parametri d’efficacia: la qualità richiede la relazione come unità di misura.
Questa frontiera del teatro, che scardina protocolli sociali e drammaturgici, necessita di questi contesti ricettivi per raccontare di sé senza schematismi e strumentalizzazioni.
Nel valorizzare la mobilitazione autonoma e svincolata da discipline rigide, da un’eccentricità di partenza, si sente l’urgenza d’azione: la ricerca si fa forte di un tessuto connettivo ad ampio respiro e la pratica artistica si rivolge al diversocome l’uomo in cui si rivelano i bisogni più autentici, le mancanze. Le tematiche in esame e le modalità d’approccio prospettano una progettualità comune, tra passione personale e vocazione all’impegno; si apre quel “processo direzionato” che valorizza insieme la continuità e la rottura, il momento in cui la marginalità di ogni essere umano si rivela, in ogni attimo di oscurità o in ogni attimo di illuminazione.