Alla prima serata de I Teatri del Sacro 2019 i legami nati tra un gruppo di giovani con il proprio bagaglio di racconti e un pubblico onesto nel donare sé stesso testimonia la potenza di un teatro che agisce sul territorio, a contatto con le radici della gente. Niente che resti non amato è esito del Corso di formazione professionale per Operatori di Teatro per il Sociale – OTS Lab, nato dal lavoro con Monica Morini e Bernardino Bonzani, alla regia di un «rito in tre tempi» che diventa incontro di poesia, di vite e di paesaggio.
Articolo di Eva Corbari
Incontriamo i due fondatori del Teatro dell’Orsa sulle scale di pietra de L’Impronta e proprio le pietre evoca Monica, quando le chiediamo cosa porterà con sé di Ascoli Piceno: «le pietre che parlano, le chiese che sono scrigni, l’aspro del paesaggio intorno, l’aria dei luoghi scossi dal terremoto, nominati nel rito finale: Monte Acuto, Acquasanta, Accumuli… quelli inghiottiti dalla terra»; e ancora: «c’è quello che c’è e c’è quello che non c’è più, ma stanno insieme». Nelle parole di Fabrizio Fiaschini, direttore artistico del festival, Ascoli è «una città che ha subito valorizzato la dimensione di rete e di attivazione» in cui «le relazioni tra le persone hanno dimostrato una presenza fortissima», quando nel 2017 il festival vi è approdato per il primo anno, a breve distanza dal terremoto. «È impossibile stare in una chiesa che è vicino a un fiume senza sentire la benedizione della natura. Esso porta anche l’acqua raccolta dalle donne che tornavano a casa, senza le fontane», continua Monica, con le sue movenze delicate, che ne ricordano lo scorrere.
Sul sagrato di uno dei suoi luoghi più caratteristici, San Pietro in Castello, Morini e Bonzani accolgono le persone, nel primo dei tre momenti drammaturgici, insieme ai ragazzi che hanno partecipato al corso, strutturato in quasi 400 ore di formazione e tirocinio, che Federgat e I Teatri del Sacro hanno promosso in collaborazione con le associazioni del territorio, Fondazione Cassa di Risparmio di Ascoli Piceno e Laboratorio Minimo Teatro. «I giovani che hanno partecipato portano un segno di grande accoglienza, tenacia e caparbietà; hanno dimostrato la disponibilità all’ascolto e una capacità diligente di andare in profondità», dice Bonzani, mentre ricorda come ciascuno abbia consegnato totalmente la propria storia alla scena. La stessa autenticità di sguardi vince la timidezza di svelarsi e induce il pubblico a sussurrare di sé, di ciò che porta, che ha perduto, con la luna ocra che sorge.
Le persone vengono accolte dove la performance si conclude, giù verso il sentiero del fiume, in quella che Bernardino spiega essere «l’azione collettiva, dedicata a tutti quelli che rimangono insepolti, che non vengono pianti. Si va ad ascoltare in processione silenziosa l’acqua del torrente, nel quale trascorrono le voci dei morti», secondo il filo conduttore della ricerca drammaturgica. Nel descrivere l’idea del progetto, parlano infatti di tre momenti strutturati su racconti orali, evoluti in fase di laboratorio, a partire dalla domanda sulla misericordia e da un personale oggetto significativo: «ognuno porta la catena dei giorni e la leggerezza, porta ciò che ha perso: il giorno che siamo nati, le persone amate e perdute e la verità del sentire». Spiegano: «partiamo dai serbatoi di memoria e immaginazione che ogni essere umano ha e dalle domande; le memorie si aggrappano agli oggetti, frammenti di antenati, infanzia, vita e invisibile: dove c’è quello che stiamo dimenticando c’è un tesoro».
Tra il prologo e il congedo due canti corali in dialetto (le musiche originali sono di Antonella Talamonti) incorniciano un momento collettivo dove, in gruppi raccolti, gli spettatori ascoltano storie di un nonno poeta, di un’antenata mugnaia, mangiano biscotti Doria o bevono acqua e limone, annusano lavanda, entrando nel quotidiano di altri, di vite sconosciute, che eppure ci appartengono. Il regista spiega così quella sorta di linguaggio universale, dove «ognuno apre un varco nella propria memoria uditiva e sensoriale, riscopre esperienze di vita e lo spettacolo è differente per ciascuno». L’incontro spettacolare si arricchisce di ogni identità, dal vecchio ascolano («Uno spettatore nomina le pecore delle strade di Ascoli, la contemporaneità e l’arcaico senso di ospitalità», racconta Monica) ai poeti (Gualtieri, Tonino Guerra, i Salmi…) con i loro versi, «che abbiamo imparato a memoria e dimenticato, come una rete che ci sorregge nelle parole», perché «quando raccontiamo siamo sorretti da chi viene prima, i nonni, i bisnonni… non siamo fragili, siamo potenti».
La conversazione si chiude con un interrogativo oggi più che mai necessario, la ricerca del senso della loro azione: «io, a ogni passo, mi chiedo sempre perché lo facciamo», riflette Monica. «In un momento in cui il paese è così spaccato, ringhiante, il cambiamento non è solo stare nelle proprie posizioni; ci piacerebbe che il teatro raggiungesse gli occhi di chi è certo di altre posizioni verso il riconoscimento della dignità di tutte le persone». Allora, viene da chiedersi se non ci sia una radice di marginalità da riscoprire, di cui prendersi cura, in ciascuno di noi, essere umano che se la porta dentro nella confusione dell’esistenza quotidiana, se proprio dall’oscurità che accomuna si possa smuovere la grazia, l’umano senso di uguaglianza.
NIENTE CHE RESTI NON AMATO
ideazione e regia Monica Morini, Bernardino Bonzani
con Claudia Battistoni, Simona Bottega, Davide Cannella, M. Federica Ciabattoni, Arianna Comini, Marilisa De Iulis, Michele Petrocchi, Chiara Santarelli, Carla Siliquini, Katiuscia Triberti, Silvia Zengarini
consulenza musicale Antonella Talamonti