La sesta e settima giornata CastellinAria – Festival di teatro pop hanno ospitato due dei tre spettacoli (Pezzi di Rueda Teatro, Trilogia – Tre atti di vita di Evoè!Teatro, Le mille e una notte – IV ora di LideLab) selezionati tramite bando dalla direzione artistica del festival, a cura della Compagnia Habitas. Entrambe le produzioni saranno valutate dalla giuria VisitAlvito che premierà il miglior spettacolo under 33.
Articolo di Alessia Pivotto
La compagnia Evoè!Teatro va in scena al Castello Cantelmo di Alvito l’otto agosto con il debutto assoluto dello spettacolo Trilogia – Tre atti di vita, drammaturgia e regia di Paolo Grossi, con Emanuele Cerra, Federica Di Cesare, Stefano Pietro Detassis. Precisi riferimenti biblici guidano la scansione in tre atti, la prima scena rappresenta l’Ultima cena a cui prendono parte i tre attori in un triangolo amoroso che si propone di discutere in chiave comica il tema del tradimento. L’ambientazione scenica riflette il gusto medio borghese contemporaneo, un salotto luminoso e minimale nell’arredo, poco accogliente ma con un’efficace suddivisione degli spazi. Tre teli dipinti delimitano lo spazio d’azione con una significativa apertura verso il pubblico, a cui spesso gli attori si rivolgeranno; non ci sono quinte e i cambi di scena restano visibili, così come il fondale, che diviene per gli attori il luogo deputato all’assunzione di un altro ruolo. La scenografia assume diverse connotazioni, si dilata e si restringe grazie alla mutata collocazione dell’arredo, rendendosi disponibile alla realizzazione del secondo atto intitolato Eden. Siamo quindi in un giardino tutt’altro che bucolico, in cui viene data forma drammatica al gioco di potere tra individui di sesso opposto, al rimorso, al concetto di colpa e di acquisizione consapevole di conoscenza, attraverso la relazione frontale e dialogica che intessono Emanuele Cerra e Federica Di Cesare. Passione: un corpo pesante, cade e si rialza, si sposta in tre direzioni, sempre le stesse e con perpetua frenesia; siamo nel terzo atto e la Passione di Cristo non è portatrice del verbo. Acqua e vernice rossa serviranno a Stefano Pietro Detassis, solo in scena, a simulare l’agonia della sopportazione del dolore.
LideLab (laboratorio del piacere e del dolore) è il collettivo di artiste indipendenti, impegnate nella rivisitazione in chiave contemporanea del mito di Le mille e una notte, progetto teatrale metanarrativo che condensa in un’unica figura, la forza creatrice e salvifica delle donne. Lo spettacolo Le mille e una notte – IV ora, finalista della Biennale Teatro Registi Under 30 – 2018, è andato in scena il nove agosto 2019, da una drammaturgia di Silvia Rigon, con regia e scenografia di Lucia Menegazzo, l’interprete Barbara Mattavelli e la musicista Federica Furlani. Cinque donne unite per «interrogare l’oggi» e riscoprire «il sentimento della meraviglia come principio vitale». Riscoprire e suscitare meraviglia con e attraverso il teatro, vivificando un oggetto di per sé inanimato come la marionetta. Composta di ciò che della vita resta: le ossa, ossa non ingerite ma cotte, selezionate e trattate, secondo un insolito procedimento. La struttura ossea della marionetta è animata da corde di violino, il soffio vitale è onda sonora che si propaga nell’aria. Ombre, manichini, burattini, prendono parte al racconto in una scena buia, dove l’atto di vita è intriso di morte e l’alba è allo stesso tempo eclissi. La storia di Shahrazād, attraverso le letture di Barbara Mattavelli, parla a tutte noi. Il re persiano Shahriyār, uccide ogni sua sposa dopo la prima notte di nozze, un sacrificio delle vergini attuato per vendetta, per l’avvenuto tradimento di una delle sue mogli. Shahrazād, con l’aiuto della sorella, si salverà raccontando al re ogni sera una storia di cui rimanderà il finale al giorno seguente. Dovranno trascorrere mille e una notte per far si che il re si innamori di lei e ponga fine alla crudeltà e all’odio. Incontriamo visivamente i personaggi del racconto grazie al teatro di figura, alle proiezioni di ombre che si appropriano anche dello spazio circostante, sovrapponendo in un’unica immagine le due dimensioni: della scena e della realtà materiale di un muro in pietra. Le attrici, interagiscono con scheletri di animali, abitano mondi lontani e fantastici, pongono fine all’amore con un uomo-manichino violento, per preservare la propria vita. Mettono in discussione il rapporto con il maschile, la sopraffazione e l’accettazione di una gerarchia di potere che sembra insovvertibile, dando risposta ad uno dei quesiti che sottostanno alla nascita dello spettacolo: «Quando abbiamo preso una decisione pensando di non avere altra scelta?».