Marta Cuscunà: l’uomo come chair à canon

Di Caterina Ridi

La regista, autrice e performer friulana presenta, nell’ambito della quattordicesima edizione del festival Short Theatre, un’interpretazione del mito ladino dei Fanes. Una storia di un «tempo più antico del tempo» che riverbera nel nostro oggi.

Quella dei Fanes è una storia antichissima, appartenente alla tradizione Ladina: affonda le sue radici nelle rocce delle Dolomiti. Si tratta di un mito che racconta di una società matrilineare, il popolo dei Fanes, governata da regine che passano il totem del potere di madre in figlia. Il loro regno si estende lungo una valle intera in cui vige un assoluto stato di pace. Questo Eden inizia ad ammalarsi con l’arrivo di un re straniero guerrafondaio che, sposando l’ultima regina dei Fanes, acquisisce il potere. Conquista i popoli vicini, stermina chi non si sottomette. È questa la storia a cui Marta Cuscunà si ispira per costruire drammaturgicamente e registicamente il suo ultimo lavoro, Il canto della caduta: di un popolo, della speranza di pace, dell’umanità intera che ha fallito e continua a fallire. 

La performance si apre mostrando una struttura metallica, stridente, angolosa: una gabbia di ferro che capiremo essere la struttura da cui si staglia il primo gruppo di personaggi, quattro corvi meccanici che aprono e chiudono il racconto della vicenda, manovrati da Cuscunà con joystick di leve e cavi. Impressionante il lavoro di progettazione e realizzazione di questi soggetti da parte dell’abile scenografa Paola Villani, che, come racconta in un’intervista curata da Andrea Pizzalis, ha conciliato il tecnicismo dell’arte dell’animatronica alle esigenze drammaturgie della regista. I quattro corvi, profondamente caratterizzati a livello psicologico, sono coloro che temono il ritorno della pace nel regno dei Fanes: un futuro prospero negherebbe loro l’abbondanza di carcasse umane di cui sono ghiotti. Giovano della presenza perpetua della guerra e sarà proprio dalla loro cronaca che gli spettatori seguiranno le dinamiche del conflitto, mai presentato sulla scena in modo diretto, ma solo raccontato dai suoni e dalle parole degli avvoltoi di ferro e legno. 

La scenografia ferrosa non si esaurisce in un solo piano: nasconde una parte sottostante, abitata da due personaggi che conosceremo nella seconda parte dello spettacolo. Sono un bambino e una bambina, anch’essi concertati dalla voce di Cuscunà. La presenza di questi bambini è ancora una volta ispirata dal mito ladino: si racconta siano gli unici sopravvissuti dei Fanes, rimasti eternamente giovani, a cui sarà affidata la rinascita del popolo distrutto e il ripristino della pace. Non è casuale che la loro vicenda si ambienti in un livello inferiore: sono confinati in grotte sotterranee, travestiti da topi per non essere riconosciuti dagli eserciti del re straniero, in attesa del ritorno delle antiche regine che riporteranno il regno alla prosperità. 

La semplicità della storia narrata si amalgama sapientemente con la complessità tecnica della realizzazione scenica e drammaturgica: la performer passa da un livello all’altro concertando un totale di sei personaggi diversi, ognuno caratterizzato in modo specifico. Le modulazioni vocali non si ripetono o confondono mai: se assistessimo allo spettacolo a occhi chiusi, alla fine potremmo giurare di aver ascoltato sei attori diversi nei panni dei vari protagonisti. Altra peculiarità della performance è quella del mix di linguaggi visivi e sonori: al centro della struttura in ferro si ha la presenza di uno schermo luminoso su cui osserviamo riprese aeree delle Dolomiti e la presenza di scritte che interrompono la narrazione, interpellando direttamente lo spettatore. Inoltre, tutto lo spettacolo è intessuto di uno strato sonoro assordante, violento, costruito con rumori stridenti: in una partitura molto precisa, a più riprese, luci improvvise e intermittenti come lampi si armonizzano con suoni sparati a volumi altissimi. 

«Si era giunti a un tal disprezzo per le vite degli uomini […] da chiamare i coscritti carne da cannone». ÈChateaubriand che scrive in un pamphlet del 1814, raccontandoci quale fosse nell’era napoleonica la considerazione che si aveva delle reclute militari. Carne da cannone. Uomini privati di identità e volto, buttati in scellerate missioni di guerra con possibilità di sopravvivenza pressoché nulle. La riflessione che Marta Cuscunà porta avanti in Il Canto della Caduta verte sull’impossibilità di decifrare e capire il senso della violenza frenetica dell’uomo, la polidipsia di sangue che lo rende spesso un «abominio di natura», come uno dei corvi ci confessa quasi a fine spettacolo. «Sono solo una marea di uomini pronti allo sterminio», sottolinea un altro corvo metallico: carne da cannone, esseri che si saziano con distruzione e sopraffazione. Il testo scritto dalla Cuscunà, liberamente ispirato anche ad autori e autrici quali Christa Wolf e Von Kleist, nel suo esito assume più le sembianze di una domanda aperta: esiste un’alternativa sociale che consenta un passaggio da un sistema di guerra e odio a uno di pace?

E il mito? Che significato assume per lo spettatore di oggi: un monito o un esempio da seguire? La storia dei Fanes è raccontata, dalla performer e dai sei personaggi che concerta, con estrema semplicità, assumendo spesso il profilo di una favola. Eppure, un sotto-testo cupo riverbera in platea, con associazioni, assonanze che riconduciamo alla cronaca contemporanea. Amargi è la parola, di origini sumere, con cui si chiude lo spettacolo: nello schermo che costituisce parte della scenografia, scorrono i suoi significati. Ritorno alla madre, responsabilità verso l’altro, aiuto e supporto al debole. E noi? Che personaggi della storia siamo? I corvi affamati di carne? I topi che non escono dalle profondità del terreno perché temono il mondo in superficie, aspettando l’avvento messianico di un futuro prospero? O l’unico topo che fa proprio il senso della parola amargi ed emerge dalle caverne?

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IL CANTO DELLA CADUTA

testo liberamente ispirato al mito del regno dei Fanes

di e con Marta Cuscunà

progettazione e realizzazione animatronica Paola Villani

assistente alla regia Marco Rogante

progettazione video Andrea Pizzalis

lighting design Claudio “Poldo” Parrino

costruzioni metalliche Righi Franco Srl

partitura vocale Francesca Della Monica

sound design Michele Braga

esecuzione dal vivo luci, audio e video Marco Rogante

costruzioni metalliche Righi Franco Srl

assistente alla realizzazione animatronica Filippo Raschi

collaborazione al progetto Giacomo Raffaelli

distribuzione Laura Marinelli

produzione co-produzione Centrale Fies, CSS Teatro stabile di innovazione del Friuli Venezia Giulia, Teatro Stabile di Torino, Sao Luiz Teatro Municipal | Lisbona

in collaborazione con Teatro Stabile di Bolzano, A Tarumba Teatro de Marionetas | Lisbona

residenze artistiche: Centrale Fies, Dialoghi–Residenze delle arti performative a Villa Manin, Sao Luiz Teatro Municipal, La Corte Ospitale

con il contributo del Centro di Residenza dell’Emilia-Romagna “L’arboreto-Teatro Dimora | La Corte Ospitale”

sponsor tecnici: igus® innovazione con i tecnopolimeri; Marta s.r.l. forniture per l’industria

Si ringraziano Daniele Borghello, Cattivo Frank-Franco Brisighelli, Erika Castlunger, Ulrike Kindl, Andrea Macaluso, Alessandra Marocco, Famiglia Medioli-Valle, Giuseppe Michelotti, Giuliana Musso, Bernardetta Nagler

Marta Cuscunà fa parte del progetto Fies Factory di Centrale Fies

Foto di Daniele Borghello 

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