«Ogni uomo uccide le cose che ama». Il Saul di Giovanni Ortoleva

Dwight MacDonald, l’autore di Masscult e Midcult, non sarebbe probabilmente stato d’accordo con la Menzione Speciale che la Biennale Teatro 2018 ha assegnato al Saul di Giovanni Ortoleva: quelli in cui ha scritto MacDonald sono stati anni molto diversi dai nostri. In pieno boom economico, MacDonald presagì l’inquietante destino prossimo degli intellettuali e di quella che lui chiamava la “cultura alta”, cioè quello di soccombere irrimediabilmente alla macchina consumistica del capitalismo, riducendosi a brandelli e producendosi negli ibridi della “cultura di massa” e della mid culture. La mid culture, in particolare, spaventava il critico: era per lui l’illusione della cultura senza ricerca, la confusione fra la poesia e l’arte prodotta in serie, accessibile a tutti senza sforzo, che avrebbe finito col tempo per distruggere ogni possibilità di arte reale.

Oggi, che quel pronostico si è per alcuni versi avverato, mentre la stagione postmoderna sembra avviarsi alla sua conclusione e dal suo interno più voci richiedono un cambio di paradigma, appare in Italia uno spettacolo come questo Saul, opera di un regista fiorentino di ventotto anni. MacDonald non avrebbe forse visto di buon occhio un’operazione di riscrittura che tira in ballo l’Antico Testamento, Vittorio Alfieri, André Gide, Oscar Wilde, Gian Maria Volonté, la videodance, il business del rock, una stanza d’albergo e una confezione di tramezzini al tonno. Dalla soglia dei nuovi anni Venti (quelli duemila-) è possibile, però, sperare che si sarebbe sbagliato.

Il Saul di Giovanni Ortoleva è infatti uno spettacolo sfacciatamente “postmoderno” che fa del citazionismo la struttura stessa della narrazione, ed è al contempo uno spettacolo che allunga le braccia per gettarsi oltre: oltre il nostro tempo, da qualche parte nel futuro, annaspando e senza vedere, armato di tutto punto degli strumenti del postmoderno e di una grande onestà intellettuale. Saul compie una tragedia in mezzo al kitsch, al camp, al rumore bianco dei media. È sia la tragedia della storia di Saul, David e Gionata, che quella di un teatro sbranato dalla “fine delle ideologie”, in lotta per trascinare la propria carcassa oltre la linea dell’orizzonte.

La storia è quella del Saul di André Gide (1903), «riferimento cardinale» per la stesura del testo, come esplicitano gli autori Ortoleva e Riccardo Favaro: Saul e il figlio Gionata si innamorano di David, il quale ricambia soltanto l’amore del secondo, gettando il primo nelle spirali di una disperazione omicida a causa della sua gelosia. Entrambi sono destinati a morire, mentre a David spetta di prendere il posto di Saul. La scrittura di Ortoleva e Favaro prende però corpo attorno a un nucleo di situazioni, ambienti e ruoli moderni: Saul è una rockstar alla fine della sua carriera, David un nuovo fenomeno del palcoscenico. I due si incontrano nella stanza d’albergo che, sipario già aperto sulla prima scena, accoglie lo sguardo degli spettatori all’ingresso in sala.

Lo spettacolo inizia su Saul – Marco Cacciola – sprofondato in una poltrona, circondato da scartoffie e resti di cibo che ha sparpagliato tutto intorno a sé. Guarda svogliatamente alla televisione un film spagnolo del 1964, Saul y David di Marcello Baldi, come si guarda uno sceneggiato pomeridiano. Da qui ha inizio la parabola di un crollo, ripartita in tre atti, che vede le coordinate di trama dissolversi gradualmente nella vicenda epica di tutti i Saul precedenti: una sovrimpressione di testi e discorsi che diventa la traccia di questo Saul particolare, e funziona come una sovrapposizione di negativi per dare origine a un’immagine cubista, in movimento.

Lo spettacolo si configura allora come un reticolo di rimandi, un testo a strati, senza fondo, nel quale si ha l’impressione di poter scavare all’infinito. Basti l’esempio della frase pronunciata da Gionata – Federico Gariglio – «Ogni uomo uccide le cose che ama, oppure ne viene ucciso», la quale rimbalza per le pareti del Novecento passando per il film Querelle di Rainer Werner Fassbinder (1982), in cui un’anziana Jeanne Moreau cantava proprio Each man kills the thing he loves, e per un album di Gavin Friday con The Man Seezer dal titolo omonimo (1989), entrambi tratti dalla celebre Ballad of Reading Gaol di Oscar Wilde (1898), pubblicata in seguito al suo incarceramento dietro accusa di atti osceni e sodomia.

Insomma il Saul di Ortoleva è un “testo senza originale”, la cui natura è costituita dalla verità delle copie, nella migliore tradizione derridiana. È un testo figlio della mid culture, i cui linguaggi e riferimenti “alti” e “bassi” si compongono in un’azione scenica compatta. Ma il suo risultato è ben lontano dalle conclusioni postmoderne sull’impossibilità dell’uomo di agire o interpretare la realtà. I personaggi di questa storia sanno che le grandi tragedie non sono più possibili nell’Occidente di oggi – «Dove sono i posti in cui marciavano due carrarmati e quattro stronzi fermi in piedi davanti? Non qui. Dove sono i posti in cui ti rinchiudono se canti? Non qui» – ma il rapporto che costruiscono con il loro tempo è liberatorio. Pur costruiti su meccanismi della cultura contemporanea, non cadono nella paralisi disperante e senza vie d’uscita così caratteristica di tanto pensiero postmoderno. Saul è uno spettacolo sul fallimento che proprio puntando al confronto con il crollo supera il cuore di quella disperazione, standogli in piedi davanti e dichiarando che il fallimento non è soltanto necessario, è bello.

In questo senso quello di Ortoleva è un lavoro sui padri e i figli, e sui loro tempi. Saul non si innamora semplicemente di David, ma si identifica con lui. È qui che la pièce prende le tinte di un discorso sull’uomo, che parla delle relazioni fra le generazioni, fra i grandi e i piccoli, gli eroi e gli sconfitti. Il terzo atto – in cui i tre ballano fino allo stremo sul palco messo a soqquadro da Saul – si trasforma in esasperazione fisica, e dai corpi sfiniti degli attori, in un profluvio di mosse e di parole, emana finalmente quella verità a cui la messa in scena faceva la corte dall’inizio, girandovi attorno, sottendendola, inseguendola: il sollievo commovente della resa. Così Gionata è felice di rivedere David, anche se viene ad ammazzarlo, e Saul può finalmente uccidersi. Prima di morire, il re-rockstar dichiara a David: «Tu sei più grande di me, e adesso che sei mio nemico posso dirlo. Non ci si può arrendere a un amico, ma a un nemico sì».

Di lì a poco, lo spettacolo si conclude su David – Alessandro Bandini – che prende il posto di Saul nella poltrona della prima scena. Il cerchio è chiuso, il teorema rovesciato. Forse l’esasperazione del finale potrebbe essere portata ancora più in fondo, e alcuni momenti di rottura della quarta parete – per quanto innegabilmente divertenti – finiscono per frenare l’azione piuttosto che rinnovarne il gioco, ma l’impressione resta quella di avere di fronte un lavoro complesso, colto e non privo di fascino. La chiave è sempre Saul: innamorandosi di colui che – portandolo al suicidio – lo uccide, il re getta una luce obliqua sul tema centrale del testo. In fondo, si potrebbe dire che Saul si innamora del fallimento.

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