Incontro con Michele Sciancalepore: la critica teatrale in televisione

«Da quando portai l’Edipo Re di Sofocle alla maturità o feci esperienza di recitazione, di tecniche d’addestramento vocale e pronuncia, o indirizzai il percorso universitario in lingue verso la drammaturgia e durante il praticantato ad Avvenire, quando fui assunto a nella neo-nata SAT2000 nel 1998, mi spinge una domanda: qual è il mistero della creazione artistica?». Il medesimo spirito che ha fatto innamorare del teatro Michele Sciancalepore guida Retroscena dal 2007, in onda il martedì su TV2000, finestra sul panorama teatrale nazionale, con attenzione all’approfondimento critico e al dato umano del processo creativo, dotando la tecnica di funzioni esistenziali oltre che estetiche (o promozionali). Tra esempi video di situazioni evocative, della tecnica dei lanci di puntata o delle rubriche, la conversazione si centra sulla pratica del mestiere, sull’importanza di integrare sguardi di più professionalità e riportare in TV lo stato trasformativo dell’opera. «Quando mi chiedono come ho intenzione di attuare il planning di lavoro, rispondo: “non lo so, sto vivendo”», dice il giornalista, «la vita suggerisce il suo stesso racconto».

Eva Corbari: Un filmato realizzato per la festa dei 10 anni di programma sulla genesi di Retroscena in forma comica illustra ironicamente l’iniziale difficoltà di proporre la critica teatrale in TV. Quale obbiettivo ti ha spinto a combattere per l’affermazione del format e continua a motivarne la persistenza?

Michele Sciancalepore: Mi viene in mente una frase di Russell, a proposito delle utopie (e il teatro vive grazie ai sognatori): «gli innocenti non sapevano che il progetto che volevano realizzare era impossibile e proprio per questo lo realizzarono». Mentre inserivo pillole teatrali in servizi del TG, percepivo la necessità di un approfondimento critico. Desideravo rendere il teatro divulgativo, soprattutto quello di ricerca, ritenuto elitario, ed era una sfida per le dinamiche televisive. Ritengo il teatro un tesoro alla portata di tutti, in cui si crea una relazione che risveglia le coscienze collettive. I risultati incoraggiano il nostro auspicio: riceviamo i feedback di un pubblico non-teatrale, che grazie a noi scopre. L’essenziale è stato avere chiari gli strumenti pratici e tecnici per riuscirci.

E.C.: Quali sono gli strumenti di traduzione del racconto teatrale in TV? Si tratta di una differenza di linguaggio, di rapporto parola e immagini?

M.S.: Bisogna conoscere il mezzo televisivo, una semplice trasposizione ammazza entrambi i linguaggi. Uno dei segreti è il ritmo: prima della parola, l’immagine. La scalettatura di ore di girato, croce e delizia del mestiere (prima del digitale, riempivo taccuini di un codice grafico personalizzato!) ne detta il rapporto con il testo pre-scritto: l’adattamento è una dialettica creativa, nelle scelte di lessico, assonanza, di costruzione del periodo… Oppure, in alcuni reportage di puntata inserisco uno speech, un testo più simile alla recensione stampata e seleziono immagini in base all’aderenza ad esso, con sequenze che mostrano ciò che dico, insert dal vivo che proseguono un’interruzione del discorso… Serve orecchio musicale.

E.C.: Come si forma lo sguardo sul teatro mediato dalla tecnologia? Come questo medium restituisce la percezione di uno spettacolo dal vivo?

M.S.: A livello tecnico, sfrutto il potere evocativo delle immagini sostituendo la fissità della telecamera da lontano con ristretti, piani sequenza sui dettagli, un totale ad hoc o piani larghi e primi piani. Poi, per la ripresa dell’intero spettacolo, serve che l’occhio dell’operatore colga l’attimo di ciò che accade; seguire le prove necessita di una sensibilità personale. La professione “operatore di riprese teatrali” non esiste, Retroscena ha operatori allenati sul campo al comportamento in teatro e ad una sensibilità emotiva e culturale. Ritengo poi essenziale ottenere un audio ottimale dello spettacolo, che non coprirò con la mia voce (per la TV, meglio gli attori microfonati!) e serve collaborazione tra i tecnici per collocare le attrezzature. Lo stesso per le musiche: mi faccio consegnare i file di quelle originali, ma mi capita di sceglierne di diverse, se le sento funzionali ad un’atmosfera, ad adattarne le durate, restituirne le sonorità.

E.C.: Nel caso del lavoro con coreografi e danzatori, invece, c’è una pratica dello sguardo ancora diversa? Quanto intervieni sulle musiche, ad esempio?

M.S.: Seguiamo la danza contemporanea o quella classica rivisitata, dai fenomeni più popolari come i Kataklò, i Sonics a Enzo Celli… Gran parte della musica degli spettacoli di danza è funzionale alle situazioni coreografiche, perciò non intervengo creativamente tanto su quella, ma con tagli, dissolvenze, inversioni in fase di montaggio, per sintetizzare l’intero sviluppo di un movimento in maniera coerente al racconto critico e al mezzo.

E.C.: Peculiarità di Retroscena è testimoniare il processo creativo: nel montaggio finale, quale principio guida la selezione della molteplicità di materiali e punti di vista (il tuo, quello dell’artista, l’indirizzo editoriale…), per altro connessi al lato più umano del mestiere?

M.S.: Sostengo, sorridendo, che entrare alle prove sia come entrare in camera da letto! Non uno sguardo voyeuristico, un ingresso delicato, ma profondo, nella creazione. Carpire le tensioni e le dinamiche private in atto (ad esempio, ho assistito ai conflitti di Emma Dante con gli attori, o alla sofferenza di Delbono…) punta a restituire una verità che non tradisca il vissuto. Anche nelle interviste, pur mantenendo la soggettività, bisogna disarmarsi. Negli anni, dopo l’iniziale stupore per il mezzo, si è creato con gli artisti un clima di famigliarità e fiducia: spesso diventiamo interlocutori su nodi scenici e drammaturgici. Gli scontri sono capitati ed aiutano un rapporto schietto. Ugualmente, nel rapportarmi alla linea editoriale del canale e condividendola, ho la libertà di una mia posizione critica. Giancarlo Cauteruccio ha definito il montaggio vibrante di Retroscena “nuova tecnica drammaturgica televisiva”: un “montaggio delle emozioni”, si può dire, che mi permette di comunicare, ricreandole liberamente e soggettivamente, le verità fondamentali che percepisco durante lo spettacolo. L’etica è: tradire dal punto di vista tecnico, ma non lo spirito e la verità di ciò che si è visto.

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