In un’epoca dove le forme di comunicazione si evolvono di giorno in giorno, è spesso difficile rimanere al passo coi tempi, correndo il rischio di rimanere indietro, come nel caso dei social: tra post, stories e hashtag, è facile perdersi nella moltitudine di possibilità che questi nuovi mezzi comunicativi propongono. Tuttavia, c’è chi questi mezzi li ha fatti propri e si è creato un lavoro su di essi, come Simone Pacini, consulente free lance di comunicazione, formazione e organizzazione in ambito culturale ed attualmente docente presso il dipartimento SARAS dell’Università La Sapienza di Roma. Nel 2008 apre il gruppo fattiditeatro, che in poco tempo diviene un brand a tutti gli effetti. Collabora con moltissime realtà teatrali italiane, come il Teatro dei Venti di Modena e il Festival VolterraTeatro, e dal 2015 organizza progetti e workshop di social media storytelling per la cultura, in collaborazione con università e imprese culturali, insegnando le tecniche e i segreti del Web 2.0.
Ludovica Labanchi: Stiamo assistendo a un’ascesa di Instagram sempre crescente, soprattutto tra i giovanissimi. È possibile che in un futuro prossimo, si assista alla scomparsa di un social network o si tratta solo di tendenze?
Simone Pacini: Tutti i social network sono molto utilizzati all’incirca da un decennio. In questi dieci anni si sono consolidati in delle macro-corporazioni, come Google o Apple, e credo che vi rimarranno a lungo: se nascerà un nuovo social prima o poi entrerà a far parte di questi gruppi. Per esempio, Google ha chiuso Google+ perché possiede già YouTube, che è il secondo motore di ricerca più usato al mondo, mentre Instagram, che è di Facebook, è il secondo social più usato al mondo. In sostanza, Google e Facebook si dividono la torta, tra chi possiede le ricerche online e chi i social network. Secondo me non ci sarà uno stravolgimento, quanto un’evoluzione dei social già esistenti. Vedi Instagram, che in pochi anni è cresciuto tantissimo, con le stories e Instagram TV.
LL: Parliamo di comunicazione all’estero. A quali sistemi di comunicazione ti ispiri? A quali dovrebbe ispirarsi l’Italia?
SP: Guardo molto al sistema anglosassone che al momento è quello che detta legge sull’utilizzo dei social, anche nel mondo dello spettacolo e delle arti visive, perché ha un metodo più immediato, i testi sono più brevi, infatti in Inghilterra e Stati Uniti Twitter va ancora tantissimo. Il sistema di comunicazione, all’estero, non essendo finanziato dallo Stato, deve essere più furbo, andare più d’affari: lavorano sullo storytelling, curano nei minimi particolari foto e video. Alcuni esempi potrebbero essere la Royal Shakespeare Company e, per quanto riguarda i musei, il M.o.M.A. di New York. Quando mi chiedono chi guardare, io dico sempre “gli inglesi”.
LL: Come possono le piccole realtà crescere nel mondo del web senza essere sovrastate dai grandi nomi e senza cadere nello spam?
SP: Nel mondo del teatro e della cultura in generale è importante avere dei momenti di incontro, anche social volendo, ma che permettano un confronto tra le persone, non serve stare tutto il giorno a programmare post. L’idea di mixare online e offline è la soluzione ideale: la visita guidata all’interno di uno spazio teatrale può, ad esempio, essere seguita tramite l’utilizzo di un hashtag. Quando parlo di community mi riferisco alla necessità di creare un gruppo sempre crescente che sia presente anche fisicamente, non solo online. Il teatro è fatto di persone che si vedono per crescere insieme.
LL: È tuttora in corso un enorme dibattito riguardo il pubblico: c’è chi dice che le sale sono vuote e che i giovani non vanno a teatro, dall’altro lato chi dice l’esatto opposto. Qual è il tuo pensiero a riguardo? I social potrebbero aiutare il pubblico a diventare più consapevole riguardo gli eventi teatrali?
SP: Secondo me è finita l’era del pubblico “vecchio stile”, adesso si sta sviluppando l’idea di un pubblico più attivo, con progetti di coinvolgimento e gruppi di incontro con le compagnie e con le redazioni. Non so esattamente se la gente vada a teatro o meno, credo che la realtà sia nel mezzo, bisogna analizzare ogni singolo caso. Sicuramente i social possono aiutare a creare un’immagine più accattivante di un teatro o di uno spettacolo, utile ad attirare i giovanissimi. Quello che provo a fare io, infatti, è utilizzare gli strumenti per causare azioni offline: ci facciamo una chiacchierata, andiamo a prendere una birra con l’artista, per far passare l’idea ai giovanissimi che gli artisti non sono alieni, ma persone normalissime. Purtroppo, alcuni luoghi teatrali hanno ancora delle barriere concettuali, come il dress code o il prezzo del biglietto. La direzione è quella di utilizzare i social anche in virtù della promozione, perché non è detto che un post su Facebook riempia la sala di un teatro, ma è sicuramente in grado di creare un’immagine diversa. Un altro luogo in cui si dovrebbe favorire la presenza di giovani a teatro è la scuola: non puoi portarli a vedere sempre Pirandello o Shakespeare, li portassero anche a vedere una performance di danza contemporanea. Ci sarebbero tante altre cose da dire, ma questo è un discorso sul quale ci si potrebbe stare un giorno intero.