L’abisso di Davide Enia. Toccare il fondo per non risalire

«In mare si muore». Così ha inizio L’abisso di Davide Enia, accompagnato nel suo viaggio dalle musiche composte ed eseguite da Giulio Barocchieri. La scena è pressoché nuda: due sedie, due individui, una voce, una musica e un blu denso, eloquente, preciso. In questo contenitore vuoto l’attore e autore inizia il suo racconto schiettamente, senza graziose metafore o la messinscena di un grande classico che parli del viaggio con ammiccamenti alla cronaca contemporanea: l’Odissea di Enia si racconta attraverso corpi veri, vera carne, veri volti, vere onde, prendendo a schiaffi chi sta in sala.

La traversata del Mediterraneo di chi fugge dalla propria terra, il mare, il sale che corrode piano piano la carne, l’esercizio dei rescue swimmers continuo, matematico, metodico con un’unica legge a suo fondamento, quella del mare: salvare chi ha bisogno di aiuto. Lampedusa, uno scoglio piatto con niente attorno, solo mare e vento. Di questo si nutre la narrazione di Enia, dispiegandosi attraverso le voci di numerosi personaggi che prendono vita tramite l’alternanza sapiente e vertiginosa di cunti polifonici, urlati o sussurrati. E le mani dell’attore, organismi pulsanti che, muovendosi come grandi pennellate, ci mostrano dove siano i soggetti della narrazione, che volti abbiano, cosa provino. Da come si stringono e come si spalancano, il paesaggio assume certi colori e sfumature e da come si fermano a mezz’aria per brevi secondi, il racconto si coagula in tensioni stridenti che poi si sciolgono, appena le dita di Enia distendono i nervi e tornano al loro posto, giù lungo la coscia.

La sala si riempie presto di flutti e onde, sole secco e bruciante, di acqua nei polmoni e fiato corto: Enia ci affida i suoi occhi e noi vediamo le ombre di ciò che questi hanno visto. Proviamo a fare i conti con la matematica che impera intransigente nel cervello del rescue swimmer: se davanti ha tre persone che stanno andando giù e, a cinque metri, una madre e un bambino, tre sarà sempre maggiore di due. Annusiamo debolmente l’odore delle nafte e del piscio che galleggiano sul fondo delle barche e corrodono la carne, la ustionano. E la pelle che tira dopo giorni di sale e sole, arsura e niente acqua. O meglio, troppa acqua, ma non una goccia che sia potabile. Vediamo i corpi che «sono dei diari»: raccontano delle torture subite nel paese d’origine, dei soprusi, delle botte, degli abusi sessuali che ci dicono che «alle donne va sempre peggio».  Sul fondo del mare, poi, perdono ogni connotazione antropomorfa: laddove non sono i pesci a mangiare labbra e bulbi oculari, ci pensa il sale. Schiene riverse, persone che urlano il proprio nome dalle acque ai compagni che forse si salveranno, non per sperare in un salvataggio: per far sapere ai familiari che certamente sono morti in mare e non condurli a una ricerca che «davvero sarebbe infinita». Enia non cita indistintamente, non fa riverberare immagini sfocate: ci guarda fisso negli occhi e racconta dell’ecatombe del Mediterraneo, un mare con fondali di sabbia e sangue e ruggine e carne.  

L’abisso attesta che tutto questo ci sta intorno, così vicino che basta davvero un piccolo gesto per non vederlo. Basta guardare un po’ più in là. Da un’altra parte. L’attore non si appella mai al pubblico con commenti logori e didascalie già sazie, non si ha mai uno stanco invito a “partecipare”, ad “attivarsi”. Forse proprio per questo ci si sente così coinvolti. “Dobbiamo fare qualcosa, mi chiedo perché nessuno faccia qualcosa”. Quante volte pronunciamo questa frase?  Sono parole che non vogliono dire niente: funzionano come igienizzante per le nostre mani sporche che continuano a chiederselo in scialbi post su Facebook, che si indignano e premono con le loro dita consunte la reaction “Grr” sui nuovi articoli di cronaca degli sbarchi. Come accogliamo il racconto di Enia, che carico ci facciamo della sua esperienza? Qual è la nostra responsabilità come spettatori e cittadini?  Quanto impieghiamo a chiudere il capitolo Enia-Lampedusa-immigrati una volta usciti da teatro? Il tempo di un altro fazzoletto al naso che asciughi la nostra tiepida commozione, degli indici tremolanti che, in ossequioso silenzio, si infilano nell’incavo dell’occhio ad asciugare l’ultima lacrima. A porte chiuse, è già tutto finito, è già tempo di decidere se l’aperitivo si fa al bar del Teatro India o direttamente in Trastevere. Enia lo ricorda a più riprese: è una pericolosa tendenza quella dell’abitudine che ci possiamo permettere solo perché siamo dalla parte di chi guarda. Pieni delle cure di anticorpi gratuitamente offerte dai telegiornali e dalla cronaca dei media, siamo pronti a ricevere qualsiasi informazione: la morte nel Mediterraneo è un fatto a cui siamo ormai abituati. Grazie all’abuso che una certa politica fa delle parole, straziate e smembrate, e dei fatti, forse ci sentiamo anche pronti a commentare questa morte. Nella totale anestesia e atrofia di pensiero, Abisso diventa uno spettacolo di cui si ha un bisogno immediato.

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