Niente tragedia, levità: Il giardino dei ciliegi s’iscrive in una tradizione internazionale di messe in scena, le cui tappe imprescindibili vanno dalla regia di Strehler a quella di Peter Brook e ritorna per tutto il Novecento, con la sua drammaturgia e la poetica teatrale suggerita da Anton Čechov stesso a Stanislavskij, nella prima, citatissima, traduzione scenica al Teatro d’Arte di Mosca (1904). Far parlare i vuoti di Čechov, far vivere la sua realtà di sogno, appartata ma vibrante di desideri minuti, lasciare i suoi personaggi sospesi tra due dimensioni, necessita di quella formazione da artigiani in cui Alessandro Serra si riconosce, che parte dal cuore del testo (aggiornandone la traduzione) e mette firma estetica e interpretativa. La cura del custode e del mestierante si concentra su quanta più materia teatrale possibile (sue la drammaturgia, le scene, le luci, i costumi, la fotografia); far convergere l’aspettativa dei grandi ritorni (il premio Ubu a Macbettu è del 2017), le esigenze di produzione, l’insieme di professionalità e provenienze di tale varietà è sfida per quella coerenza indispensabile ad ogni rinnovatore. La tensione tra istanze pratiche e poetiche orienta il dialogo con l’autore, individuandone un ritmo specifico.
L’organicità dei segni sostiene le radici del dramma, proprio come nei ciliegi si radica il passato della nobile famiglia Ranevskaja, un sistema economico e di valori che non può resistere, impaurito dalla realtà, più che dal futuro. Lo spettacolo ridotto a due atti si costruisce su un equilibrio veicolato dalla forma, su strappi dosati in modo da potersi ricostruire. Le parole taciute, le risate forzate e i pianti trattenuti, tra nostalgia e leggerezza, fissano una soglia senza oltrepassarla, che si muove internamente grazie a contrasti minimi: gesti interrotti, danza che confonde corpi ed oggetti, alterazione del ritmo, della musica. L’intera storia di una famiglia è legata ad una proprietà, la cui vendita equivale alla perdita dell’infanzia, mentre i figli se ne vanno senza direzione, i padri non si sanno conservare, la vecchiaia si fa morte e la vendetta di Lopachin riscatto sociale.
Così il dettaglio diventa rivelatore di passato (gli ambienti strehleriani: bianco e luce fredda), di maestria artigiana (i rari marchingegni di scena sono magistralmente rifiniti), di auto-citazione (l’ombrellino che rispunta, oggetto di scena tanto caro a Serra, il fumo nell’aria o in mezzo ad un bacio) e costruttore di fisionomie alle quali non basta il dialogo (Piscik che rovescia l’acqua dal bicchiere, il tremolio del servo Firs, il trauma di Ljuba, l’abito rosso della governante-maga…). Il palco è luogo dove un mondo d’ombre dagli echi orientali, appare da dietro pareti di sughero: lo strano coro non si fa famiglia, ma interagisce a gruppi, coeso solo quando tace, quando i personaggi perdono la loro identità per diventare figura o voce in sottofondo, folla di contadini che abbattono le piante o aristocratici in festa, da esseri viventi a materia da palcoscenico. Se tutto nasce mentre muore, si accende e si spegne, quel mondo fuori tempo si fa puro teatro, che trova nel passato un linguaggio condiviso, la salvezza da una partenza che è impossibilità di restare.
Il lavoro di cesellatura preferisce la bellezza all’emozione, ma non può prescindere dal sentimento. Se non c’è dramma in Čechov, tuttavia un’intera atmosfera, la fragilità di non saper dimenticare, il gusto d’amare, sorridere e odiare palpitano nei suoi personaggi. I 12 attori non perdono mai il controllo, non si sporcano, laddove servirebbe lo strappo alla regola. Rifarsi ad uno stile recitativo impostato, ad una vocalità che per sostenersi perde le sfumature, ad una maestria d’attore forse troppo canonica s’accorda con il dettato di pulizia formale e di distacco dal reale, ma per lo spettatore può marcare una distanza rassicurante. Le figure dei servitori, ridisegnando volutamente la tradizionale figura del servo-orchestratore (a loro sono riservati intermezzi da commedia e piroette da fattucchieri) sono aggraziate, mai comiche, maschere che non scombinano anzi riannodano fili invisibili. Le contraddizioni dell’uomo nei passaggi d’epoca e di generazione si svelano sottovoce e possono avviare una rivoluzione senza colpi di scena, astratta appunto, a patto che la platea non stia sempre comoda, che si senta presa in contropiede. Con il ritratto d’umanità di Čechov si può commuovere con leggerezza, non solo far pensare. A Serra, evocare il buio riesce sempre con la forza di immagini che incantano e come fotografie diventano ricordo; nel parlare tra sé e sé, però, lanciano una voce solo a chi la sa cogliere. Alla fine, una prigione di rami secchi ingabbia il vecchio Firs e la sua resistenza fronteggia il pubblico senza metterlo alla prova, senza chiamarlo in causa: non s’avanza, non s’arretra, si resta su una terra – un palco – dove tutto torna.
IL GIARDINO DEI CILIEGI
Di: Anton Čechov
Regia: Alessandro Serra
Con: Arianna Aloi, Andrea Bartolomeo, Leonardo Capuano, Marta Cortellazzo Wiel, Massimiliano Donato, Chiara Michelini, Felice Montervino, Fabio Monti, Massimiliano Poli, Valentina Sperlì, Bruno Stori, Petra Valentini
Drammaturgia, scene, suoni, luci, costumi: Alessandro Serra
Consulenza linguistica: Valeria Bonazza e Donata Feroldi
Realizzazione scene: Laboratorio Scenotecnico Pesaro
Direzione tecnica e tecnico della scena: Giuliana Rienzi
Tecnico della luce: Stefano Bardelli
Tecnico del suono: Giorgia Mascia
Collaborazione ai costumi: Bàste
Attrezzista: Serena Trevisi Marceddu
Organizzazione, distribuzione: Danilo Soddu
Produzione: Sardegna Teatro, Accademia Perduta Romagna Teatri, Teatro Stabile del Veneto, TPE – Teatro Piemonte Europa, Printemps des Comediéns
Coproduzione: Compagnia Teatropersona, Triennale Milano Teatro