Foto di Antonio Palmieri
«Questo è uno spettacolo brutto». Andrea Cosentino entra in scena e mette subito le mani avanti, ammonendo i propri spettatori, travestito da Pulcinella «per l’anonimato». «Kotekino Riff non parla di niente, è a malapena uno spettacolo», aggiunge in un’intervista registrata per KilowattFestival. Eppure, nel suo non parlare di niente, ciò che va in scena nell’Auditorium del palazzo di Spin Time è un qualcosa di assolutamente eloquente. L’attore porta sul palco tecniche comiche che egli stesso definisce appartenenti a una clownerie nihilista: stringe fra le mani due oggetti senza vita o storia e li vivifica in personaggi che interagiscono, attraverso modulazioni vocali parodistiche che si attaccano a drammaturgie serrate, brevissime. Alcune gag vengono addirittura interrotte, mostrate al pubblico e subito negate, altre tornano durante lo spettacolo con sviluppi diversi. Nel vorticare solo apparentemente caotico e alogico dei diversi numeri, Cosentino appoggia i suoi tempi comici sulla partitura musicale del compositore, clarinettista e polistrumentista Marco Colonna, i cui interventi penetrano in modo diegetico la struttura drammaturgica ed entrano in stretto dialogo con lo stesso attore.
In Kotekino Riff, ce n’è per tutti. Cosentino si trasforma in un esperto di comunicazione e pubblicità, in un critico d’arte, in una casalinga che dice di non sapere niente della vita e poi spiazza gli spettatori con un monologo denso di sottotesti accusatori che hanno come destinatario la stessa platea, in un grande attore, uno di quelli che recita Amleto a tre quarti, in un semiologo. Lo spettacolo si costruisce sui brevi interventi di questi personaggi che si intrecciano tra loro e si alternano, a volte interrompendosi: l’escamotage principale di tutta la struttura scenica è lasciare allo spettatore la libertà di scegliere se stare al gioco proposto dall’attore o meno. Per questo, le reazioni possibili sono solo due, senza vie di mezzo e nuance di grigi: o si ride o si sta zitti, freddamente, chiedendosi a che cosa esattamente si stia assistendo. Fortunatamente, sono più coloro che stanno al gioco che gli integralisti del “ma questa cosa che senso ha?”.
«E voi lo sapete che tipo di situazione culturale abbiamo qui stasera? Ah, non lo sapete?». Cosentino provoca, crea aspettative nello spettatore e subito le tradisce, ci gioca assieme, le manipola e le smembra. Ogni volta che sta per arrivare un messaggio, una citazione còlta e cólta che faccia sentire gli spettatori intelligenti e appagati dalla scelta di essere andati a teatro, aver optato per una serata culturale, subito tutto viene annullato e destrutturato, l’attore volta pagina e tutto ricomincia da capo. Eppure, nessuno si sente mortificato da questo suo sbeffeggiarsi spudorato: forse lo si giustifica perché, in fondo, è un attore sulla scena che recita una parte, perché quella non è la realtà. O forse perché l’autoironia e il no-sense portano con sé una funzione catartica importante: creano distanza, riescono a mostrare chi siamo con leggerezza e garantendo un’osservazione da lontano.
«Il teatro è bello quando è finito, come sull’aereo, per questo si applaude quando si atterra. Ma stasera voglio lasciarvi con un messaggio, che un messaggio non si nega mai a nessuno». Cosentino, indossate di nuovo le vesti di Pulcinella, chiude il primo capitolo del suo spettacolo e, ancora una volta, decide di disattendere tutte le aspettative, destrutturando ogni forma linguistica e scenica portata avanti sino a quel momento. Appare sulla scena il burattino di Antonin Artaud che, con una voce metallica e stridente, si rivolge direttamente al pubblico con una frase ricorrente: «mi dai dei soldi?». Cambia il registro, l’ironia sparisce e si tramuta in un’accusa cupa, acida, senza lusinghe. «Mi dai dei soldi perché il messaggio è complesso? Ti commuovo nonostante tu sappia che sono finto, ti commuovo perché sembro vero? Hai dei sensi di colpa? La cultura deve creare sensi di colpa? Senti qua: pane ai circensi. Ti piacciono le citazioni? Questa la riconosci? L’hai capita? Ti piace pensare di averla capita? Mi dai dei soldi perché ti faccio sentire più intelligente degli altri? […] Ti piace quello che stai vedendo? Pensi che sia cultura, pensi che sia accattonaggio? C’è differenza?».