Spin OFF w/ Uscite di Emergenza

Parola d’ordine: emergenza. Intervista a Davide Romeo, coreografo della compagnia Uscite di Emergenza

Venerdì 24 e sabato 25 gennaio l’auditorium dello Spin Time Labs ospiterà due lavori della compagnia Uscite di Emergenza, Deja Vu (2017) e Apple After Newton (2018), all’interno della programmazione del collettivo Spin off. La prima coreografia vedrà in scena Francesca Pizzuti, Gabriele Planamente e Davide Romeo; mentre la seconda Nives Arena, Marco Cappa Spina, Gaia Martinelli, Micheal Pisano, Luca Vona, Giovanna Zanchella, con gli stessi Francesca Pizzuti e Gabriele Planamente.

Per conoscere il loro lavoro, abbiamo incontrato Davide Romeo, fondatore e coreografo della compagnia. Siamo partiti dalla scelta del nome con cui si identifica l’ensamble:

Davide Romeo: La compagnia nasce ufficialmente nel 2015. In realtà io volevo qualcosa di assolutamente quotidiano, che fosse un po’ dappertutto e che non fosse troppo astratto. Un rimando che si trovasse facilmente, proprio perché mi piaceva evocare sia un’idea di concretezza che di quotidianità, una connessione che segna il leitmotiv della ricerca della mia danza. Quindi Uscite di Emergenza, l’uscita di emergenza in realtà. Il mio stile è molto dinamico e alle volte anche un po’ estremo e  “pericoloso”. Lo studio e la ricerca si sono sempre concentrati sulla caduta, quindi il rapporto con la gravità e le cadute. Mi piace pensarla come una situazione di emergenza. Il corpo, in circostanze del genere, agisce di istinto: questa è stata una delle tante motivazioni. Poi l’uscita di emergenza un po’ intesa anche come parallelismo della quotidianità, nel senso che le mie performance, pur rimanendo fortemente attaccate alla realtà tendono sempre verso un mondo reale ma parallelo. Perciò, in questo senso, può essere un’uscita di emergenza dall’esistenza, una fuga dalla vita quotidiana per chiudersi in un mondo parallelo, proprio per rifletterci su. Quello che mi interessa indagare è ciò che rimane in questi due momenti, diversi ma inevitabilmente connessi fra di loro: l’umanità, l’interiorità e l’emotività, aspetti sempre presenti ma ai quali abitualmente non si fa caso. Sono parti molto forti del nostro essere e, anche se non siamo abituati ad affrontarli, in realtà ci facciamo i conti tutti i giorni.

Valeria Vannucci: A livello tecnico vi muovete contaminando stili e metodi differenti, fra cui floorwork, contact, improvvisazione e ricerche che partono dal gesto quotidiano. Rispetto alla vostra missione, come si inserisce la trasmissione del concept?

DR: Noi trattiamo tutta questa sfera, dall’emotivo al relazionale, questo mondo interiore con delle analisi che possono partire da vari spunti. Questa volta, per esempio, è capitata la mela, come simbolo ma sempre partendo dalla gravità, un discorso sulla gravità che ricade su tutto un sistema relazionale. Nella seconda performance che andrà in scena a Spin Time, Deja Vu, sento che c’è un’analisi ancora più profonda dell’interiorità, del caos emotivo che una persona genera quando tira fuori delle cose passate, quando le analizza appunto. I concept trattano più o meno un’analisi interiore, per questo chiaramente abbiamo una serie di strumenti che ci aiutano a tirar fuori partendo dal quotidiano, nel senso sono molto semplici. Oltre ai momenti in cui si concentra sugli aspetti tecnici, l’analisi e la mia ricerca si basano tanto sulla gravità, quindi sul corpo in estensione, sul corpo che cade, anche su un corpo non esteticamente bello ma che comunque compie azioni quotidiane. Si parte spesso e volentieri da un’analisi molto quotidiana, prendi, lancia, insomma tutte queste azioni che sono assolutamente presenti nella vita di ogni giorno che poi vengono trasfigurate in danza, ma in realtà sono già danza.

VV: Un meccanismo simile a quello che succede con gli oggetti che usate in scena…

DR: Esatto, oggetti assolutamente quotidiani che vengono presi ed esplodono nella loro valenza simbolica. Quando trattiamo un oggetto in uno spettacolo, come la mela, lo analizziamo sia dal punto di vista evocativo, cioè alle immagini associate e ai rimandi concettuali, sia come oggetto reale che si collega concretamente alla realtà. È sempre una spinta in direzioni opposte che crea il risultato sulla scena. Prima del concept cerco di studiare il più possibile riguardo all’argomento di cui sto parlando, spaziando fra tutte le fonti che riesco a reperire. Avendo a disposizione una panoramica generale, successivamente posso capire esattamente quello che voglio dire. A quel punto, con la compagnia, facciamo tutta una serie di studi, leggiamo racconti e ricerchiamo le immagini più classiche, in modo che siano accessibili a tutti e che ognuno possa rivedersi. Lo facciamo un po’ per ironia e anche per far conoscere al pubblico determinate idee senza essere troppo concettuali.

VV: una linea che tende all’immaginario pop

DR: Sì, ogni tanto succede. Mi piace fare delle citazioni che siano molto accessibili. Ad esempio Deja Vu è tutta una citazione, tutte le musiche anni ’60, anche se vanno a mirare da un’altra parte, sono citazioni molto chiare. Mi piace che lo spettatore possa riconoscere subito un collegamento, senza il bisogno di dover davvero ricercare quella meno sfruttata per motivi che non siano funzionali al processo. Ritengo che se un riferimento è riconoscibile cattura di più e mi permette di essere un po’ più pop, più ironico sotto certi punti di vista. Serve in primo luogo a me, perché sento che gli argomenti che trattiamo sono molto forti. Deja Vu, almeno per me, è una botta interiore non indifferente: si tratta di fare i conti con quelli che sono stati i miei schemi, quelli che sono probabilmente i miei schemi, e chissà se ce ne liberiamo mai davvero. Quindi è un argomento molto complesso ed emotivamente mi coinvolge tanto, rovesciare questi rapporti mi sembra il modo più interessante per distaccarmene e trattarli con meno pathos di quello che in realtà li avvolge. Ed è necessario, trovo che l’ironia sia una dinamica molto concreta, quindi mi piace essere concreto. Ancora una spinta che va in direzioni opposte.

VV: Parliamo del rapporto con i tuoi danzatori, sono un gruppo molto eterogeneo e dinamico, che allo stesso tempo riesce ad avere una coesione forte.

DR: Devo partire dalla scelta dei miei danzatori, che è una cosa molta complicata perché è proprio quello il punto focale. Il clima che io instauro in compagnia, che è un clima di totale collaborazione, sotto ogni punto di vista, significa davvero esporsi, da una parte mettersi a disposizione e dall’altra in ascolto, perché tante cose davvero non ce le si deve dire. È un clima familiare, con tutti i pregi e i difetti di una famiglia, e di totale messa a nudo, nel senso che noi ci conosciamo davvero, io conosco ognuno di loro, so i punti di forza e di debolezza, tante volte li scopriamo insieme. La cosa bella è che mi rendono partecipe di questa loro ricerca ed è uno scambio meraviglioso, io sono parte di questa ricerca, mi apro e mi espongo a loro, questo ci permette di essere squadra, questo è il retroscena umano che io credo che sia fondamentale perché poi in scena si vede. Questa diversità che ci completa. È la situazione di emergenza, perché noi siamo sempre in situazione di emergenza, l’uno raccoglie l’altro senza che ci sia una gara a chi primeggia, c’è un clima di collaborazione in sala, fuori e in scena. Ogni corpo è diverso, è bello, ogni corpo ha il suo valore, può dare sempre qualcosa anche nella sua naturalezza, che è sempre il filo conduttore della ricerca. Nel complesso, ognuno dà il meglio di sé e quindi tutto funziona. Cerchiamo di darci una mano a vicenda.

VV: Rispetto al rapporto col gesto quotidiano, lavorate molto sull’improvvisazione?

DR: Sì, cerchiamo di lasciare il più possibile uno spazio di sfogo del corpo, cioè in alcuni momenti dello spettacolo in cui è necessaria una verità assolutamente estrema. Per esempio Apple ha una parte dedicata al gestuale, in cui ognuno parla con la propria mela. Per noi l’improvvisazione è importante, sicuramente, ed è fonte anche di ricerca per la coreografia e per quant’altro, per quello che poi si cristallizza. Particolarmente in un momento in cui io voglio che si focalizzi sulla quotidianità e sul gesto, lì è quasi necessario, è davvero molto più forte di tutta la dinamica in generale.

VV: Ultima domanda, qualche cenno sul festival Corpo Mobile

DR: Corpo Mobile è una piattaforma coreografica che si tiene a Teatrocittà – a Torrespaccata – e quest’anno è la sua IV edizione. Nasce in una dimensione di emergenza, per questo lo amo alla follia. Perché non si tratta di uno spazio megagalattico, non si tratta di un quartiere rinomato, non si tratta di un giro economico di chissà che livello. Si tratta di condividere arte in contesto che ha bisogno di arte, quindi è necessario soprattutto in quel luogo lì , è un po’ la linea di Teatrocittà che io ho sempre sposato. Corpo Mobile davvero fa corpo in questa definizione. È un festival che lascia un clima di massima condivisione e sperimentazione. Mi piace che, chiaramente, si tenga questa linea di emergenza e di massima condivisione, del lavoro e di tutto. Anche le opportunità che offre sono importanti, perché è chiaro che deve essere una rete, uno dei tanti nodi della rete, che deve arrivare a tutti con quell’energia e quel sostegno necessario per cambiare le cose.

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