«A terra, insieme, respiriamo». Sono le parole di Sveva Castelli, studentessa al primo anno di Arti e Scienze dello spettacolo presso l’Università La Sapienza di Roma che insieme ad altri tredici studenti ha partecipato all’Open class del Laboratorio di messinscena, rappresentando, negli scorsi 19 e 20 dicembre, I persiani di Eschilo. (Ecco la recensione di Matteo Polimanti).
La sua voce, timida e dimessa, si intreccia con quella di Davide Pandolfo – Serse in scena – anche lui studente, giovane assistente e attore presso una compagnia catanese sotto la direzione di Giovanni Anfuso e appassionato al teatro fin dalla culla. Sorseggiando caffè, le loro voci si sincronizzano con quella di Annarita Colucci, che dalla cattedra dell’Accademia Internazionale di Teatro ha diretto il progetto, in un dialogo ideale sull’esperienza del laboratorio, sul suo processo in divenire, fino ad arrivare a considerazioni di più ampio respiro sul suo teatro: quello del corpo, del movimento sulla parola.
Samuele Moro: Annarita, perché I persiani? Che cosa ha dirci ancora questa tragedia?
Annarita Colucci: I Persiani si legano strettamente a una mia precedente esperienza lavorativa. Infatti, per diversi anni, ho curato delle regie di un’associazione teatrale, la Boulè, ai templi di Paestum. Un giorno mi commissionarono questa tragedia e mi sentii subito in crisi: riconosco infatti nel teatro l’importanza dell’azione in situazione, più della prosa. Eschilo però, in questa tragedia, fa coincidere la situazione con il racconto, con la narrazione in senso stretto, privandola di azione scenica. La mia sfida è stata dunque quella di trasformare la situazione in azione e, in questo, sono stata aiutata dalle meraviglie di Paestum: l’abitabilità del luogo mi ha suggerito il movimento. Più in generale poi, la tragedia invita a un importante lavoro di presenza e la possibilità di restituire temi così forti quali il conflitto multiculturale, la guerra, l’abbandono mi ha spinta a proporre questo lavoro.
SM: Il corpo. Potremmo parlare della potenza del movimento e di come esso costituisca un linguaggio universale, inequivocabile, diversamente dalla parola che, al contrario, potrebbe suggerire mille sottotesti possibili. Credi che ciò derivi dal fatto che un gesto organico, in termini di percezione, arrivi prima rispetto a una parola?
AC: Credo ci sia una differenza intrinseca nel linguaggio. [Annarita mi afferra la mano]. Se io adesso ti prendo la mano, faccio qualcosa di diverso rispetto al parlare per ore dello spettacolo. Ho creato un incontro, una comunione vera sulla base del corpo e ciò che voglio dire è chiaro: arriva a te e a chi ci guarda.
SM: E allora, Davide e Sveva, la fisicità stimola la relazione cambiandone la qualità. Pensate che il laboratorio abbia raggiunto questo obiettivo?
Davide Pandolfo: Penso che il tipo di lavoro che è stato fatto sulle singole personalità e fisicità di ogni elemento del gruppo abbia ottenuto i suoi risultati, migliorando la relazione tra tutte le componenti e l’efficienza della rappresentazione.
Sveva Castelli: Partecipare a questo laboratorio è stata una sfida con me stessa. Volevo mettermi alla prova e volevo liberarmi da quella timidezza che troppo spesso mi frena. Questo non vuol dire che nelle prime lezioni fossi troppo loquace, ma il passo in avanti sento di averlo fatto e l’apice è stato il flash-mob che abbiamo proposto per promuovere lo spettacolo. Dal punto di vista relazionale ho conosciuto persone meravigliose che mi hanno aiutata e spronata ad aprirmi sempre di più. Nella fisicità, invece, attraverso la respirazione e il riscaldamento mi sono sentita, consapevolmente.
SM: Più precisamente, Annarita, in relazione alla coralità della tragedia, come nasce l’idea del movimento e in che modo, da azione individuale, si trasforma in azione corale?
AC: Sono figlia di Jacques Lecoq. All’inizio non abbiamo approcciato subito al testo ma abbiamo lavorato sui principi cardine dell’uso dello spazio. Quindi siamo passati alla maschera neutra: una modalità che permette di annullare le espressioni facciali per far parlare i sentimenti attraverso il corpo. Si tratta, più precisamente, di sentire le dinamiche delle emozioni attraverso gli elementi naturali: l’imperturbabilità della terra, l’incostanza dell’aria, l’impeto del fuoco. A ognuno poi si dice di pensare a una situazione alla quale collegare un’emozione: ognuno custodisce la propria e così si costruisce il movimento. Ed è qui la bellezza: quando si assiste alla sincronia dei movimenti corali, il movimento, in realtà, è uguale per tutti ma diverso per ognuno. Ognuno proietta il proprio movimento: è il ritmo, alla fine, a mettere tutti d’accordo.
SM: Per esempio, Sveva, tu eri parte del coro e, insieme alle altre, hai riflettuto sulla condizione femminile delle donne abbandonate dai mariti che partono per la guerra. Come è nato il tuo movimento? Come ti sei lasciata andare al sentimento legato alla lontananza e all’abbandono?
SC: Il coro delle donne, per me, è stato molto delicato da affrontare. Di quelle donne ho sentito in particolare il desiderio di riavere la loro famiglia, di riabbracciare i propri cari e questo mi ha fatto pensare inevitabilmente a quanto mi mancasse la mia casa. Vengo da Cagliari e mi sono trasferita a Roma per motivi di studio. Ho riflettuto, attraverso I persiani, ancora una volta, su me stessa, sulla mia condizione, allineando la mia voce a quella degli altri.
AC: Ed è questo ciò che mi sono prefissata come obbiettivo principale. La cosa più importante per me, al di là del risultato, è stata l’esperienza pedagogica del laboratorio: lavorare sui singoli attraverso il gruppo e non il contrario. Mi sono servita della tragedia per farlo perché questo genere è proprio la celebrazione della comunità. Lavorare sulle persone per me è una missione: sono molto arrabbiata con tutte quelle realtà in cui gli insegnanti di teatro non sanno il teatro, nuocendo alle persone. Per fare il teatro in modo sociale devi fare “il teatro”. Ad ascoltare le parole di Sveva, per esempio, a guardarli tutti nel loro insieme, credo di aver aiutato alcune persone a sentirsi più libere: quindi ho compiuto un’azione sociale. Ma devo saperlo fare, il teatro, che è lo strumento: altrimenti sarei una sociologa o una psicologa.
SM: E, Davide, raccontami come hai vissuto il tuo Serse. Una delle riflessioni più importanti che la tragedia solleva riguarda la hýbris, la tracotanza. Al giorno d’oggi chi si potrebbe chiamare, secondo te, con questo nome? Quale potrebbe essere il suo corrispettivo, considerando che, diversamente dai greci, non è necessario fare ricorso alla divinità?
DP: Esatto. Chiamare in campo la divinità non è necessario, ad oggi, per definire questo concetto. Tuttavia, credo che le sue manifestazioni siano riferite comunque a delle astrazioni che appartengono a una sfera spirituale, forse etica. Oggi troppo spesso si sente parlare di tragedie soltanto apparentemente diverse e distanti nel tempo e nello spazio, ma così profondamente simili. La maggior parte, infatti, hanno come comune denominatore sentimenti folli che prevalgono sulla razionalità. Tracotanza, superbia, orgoglio sono solo alcune manifestazioni di hýbris che alberga in ogni animo e in ogni tempo.
SM: Dunque, qual è il confine che esiste tra un atto di ammirevole coraggio e uno di punibile superbia? Insomma, perché ha senso “superare i propri limiti” dato che non c’è nessuno che ce li impone?
DP: [Riflette] Forse il passo è molto breve ma, allo stesso tempo, così profondo che è difficile stabilire un limite entro il quale muoversi. Forse, molto spesso, è un rischio che va assunto, un male necessario dettato da un istinto accecante che ci descrive e che non tiene conto delle conseguenze delle azioni. Serse si serve del potere, ne approfitta inutilmente condannando il suo popolo alla rovina.
SM: Accanto a Serse, Atossa, presentata come pura immagine, simbolo del potere, privata del minimo spessore psicologico. Che rapporto c’è tra lei e i suoi conterranei e perché farla recitare in un’altra lingua?
AC: La scelta ha avuto una doppia valenza. A dare la voce ad Atossa è stata infatti Niloufar Davari, studentessa di origine iraniana. Più che mai la sua lingua, il persiano moderno, si legava strettamente alla tragedia. Ma non solo: volevo assegnare a questa scelta un ulteriore significato. Il potere, infatti, sembra parlare una lingua diversa, una lingua sconosciuta spesso anche agli stessi conterranei. Niloufar è stata proprio questo: un simbolo, una madonna statica delle feste patronali che parlava soltanto per se stessa e per il potere che, insieme a suo marito, rappresentava.
SM: Mi sorride Annarita quando le chiedo dell’epilogo. Il Canzoniere Grecanico Salentino ha fatto da colonna sonora e, alla fine, le note della taranta hanno rotto la quarta parete, coinvolgendo anche il pubblico.
AC: Avrei offerto del vino a inizio spettacolo. Tutte le rappresentazioni potrebbero essere un momento di incontrovero, autentico. [Vedo gli occhi di Annarita diventare lucidi] Mi sembra invece che siamo sempre più relegati alla condizione di “consumatori di teatro”. Andiamo soli e ce ne andiamo soli. Sarebbe bello se non fosse così: una mano data a qualcuno per farlo danzare è un invito a sentire senso di appartenenza, di adesione. La taranta poi è sanguigna, è terra, natura e non può che sottolineare questo comune sentire.
SM: Annarita, raccontaci un aneddoto divertente di questo percorso.
AC: [Sorride] Ce ne sarebbero molti. Per esempio, i cuscini di fiori portati in scena, siamo andati a prenderli tutti insieme all’obitorio del Verano. Tengo molto a far instaurare un rapporto di cura e familiarità tra i miei allievi e gli oggetti di cui si servono. Non sarebbe stato lo stesso se un giorno mi fossi presentata da loro e gli avessi detto «dobbiamo usare questo». Bisogna costruire un rapporto sin dall’inizio: cercare i fiori, trovarli, caricarli di peso e poi metterli sul palcoscenico.
SM: Ancora una volta, una relazione. Ed è per questo, credo, che quando alla fine dico a Sveva: «Prova a chiudere gli occhi. Qual è la prima immagine che ti si dipinge in testa?»
«Noi, a terra, insieme, respiriamo», risponde.
Noi. A terra. Insieme. Respiriamo.
E ho respirato anche io insieme a loro. Seduto a terra sul pavimento dell’edificio Marco Polo, un luogo che ha dato la dimostrazione di come il teatro si può fare ovunque. I loro movimenti, la loro sincronia si univa alla mia: spostando la testa per guardarli tutti, la mia catarsi è stata fisica e mentale. Ero fermo ma ero in movimento. E quando Sveva, a fine spettacolo, mi ha invitato a ballare, mi sono sentito veramente parte di qualcosa, al punto che non mi interessava più di essere scoordinato e timido, ma solo presente e felice.
I PERSIANI
di Eschilo
riadattamento e regia: Annarita Colucci
con (in ordine alfabetico): Aldiccioni Emanuele, Castelli Sveva, Davari Niloufar, D’Alascio Alex, De Giorgi Giorgia, Grossi Paola, Iuozzo Ilaria, Maccaroni Alessandro, Pandolfo Davide, Pelati Beatrice, Perrella Alessia, Veremeenko Vitaly, Villacroce Fabrizio