Francesco Calcagnini è scenografo, costumista e illustratore. Formatosi all’Accademia di Belle Arti di Urbino ora vi insegna ed è docente di Scenografia virtuale presso l’Università La Sapienza di Roma. Nella sua lunga carriera, Calcagnini ha collaborato con diversi registi tra cui Luca Ronconi, Federico Tiezzi, Carlo Cecchi, Gabriele Vacis, Guy Montavon e Davide Livermore, e il suo pregevole lavoro lo ha reso noto sia in Italia che all’estero.
Il lavoro di creazione di Francesco Calcagnini è stato definito da Andreina Bruno come «un viaggio nella mente del regista». Lo abbiamo intervistato per cercare, invece, di intraprendere un viaggio nella mente dello scenografo e approfondire i punti di partenza e di arrivo della sua arte.
Margherita Dellantonio: «Il lavoro dello scenografo è un lavoro bellissimo: egli è, infatti, libero d’inventarsi un mondo e il vuoto che gli sta attorno, anche se, a differenza di Dio, deve consegnare un disegno quotato». A partire dalla suggestione di questa sua citazione, le chiedo: cos’è per lei lo spazio scenico, e come si configura il riempimento di questo vuoto?
Francesco Calcagnini: Non sono d’accordo sul fatto che si debba riempire, il vuoto è quello che cerco di conservare il più possibile. Se c’è qualcosa che mi interessa è che il palcoscenico, anche se piccolo, conservi il più possibile spazio, perché le dimensioni in teatro non sono mai quelle reali. Pensa a tutta l’avventura del teatro borghese, con un lui, una lei e una stanza. Non è la stanza che ci interessa, ma quello che ci abita dentro, e questo subisce delle sproporzioni. Pensa alle sproporzioni di Ibsen, o a quelle completamente diverse di Strindberg, dove l’odio esploderebbe dentro una stanza normale. Quindi, più che riempirla, bisogna trovare un modo perché lo spazio si dilati il più possibile, perché respiri con il testo. Il vuoto è una delle cose più complicate da fare in teatro, perché anche il vuoto è costruito da qualcosa, non è un concetto assoluto. Costruire il vuoto è difficile quanto costruire il Colosseo o una cattedrale. E anche il palcoscenico ha i suoi rumori, non inventi lo spazio ma lo estrai da ciò che è dato.
Per quanto riguarda Dio e i progetti poi, Dio ha una certa praticità con lo sputo, con la fanga. Noi invece dobbiamo rendere il tavolo, mettere delle righe sul foglio, è una parte meno divina della faccenda e molto più ingegneristica.
Però il teatro rimane sostanzialmente il mio pelago, uno degli unici posti dove sto bene, uno dei luoghi che hanno le dimensioni giuste. Peccato che se ne faccia così poco, perché è chiaro che il teatro in questo momento non goda di grandissima salute, ma non certo per colpa di mancanza di teatranti.
MD: Nel libro che Andreina Bruno le dedica*, definisce il suo lavoro come «un viaggio nella mente del regista». Un’operazione alla Commissario Maigret che indaga gli aspetti della creazione e anche le idee del regista. Come si configura dunque il rapporto con le altre componenti dello spettacolo? E da dove parte per creare le sue scenografie?
FC: Devo ammettere che, essendo uno che è cascato nel pentolone del fantasticare da piccolo, è un po’ pericoloso fantasticare troppo se lo spettacolo lo stai facendo con un’altra persona. Devi fornirgli un mondo dentro al quale stia bene, è questa la prima cosa, perché è il regista che muoverà lo spettacolo. Ci arrivo sempre al limite dell’impreparato, senza aver messo troppo in moto il cervello. Studio l’opera, ma il lavoro lo faccio subito dopo, quando il regista mi ha detto quello che vuole. È molto più divertente, dato il testo, cercare di entrare nel mondo del regista. A volte ce l’ho fatta, a volte no. La cosa più divertente è non dipendere totalmente da te e cercare invece le tue cose dentro la testa di qualcun altro, in maniera tale da non autocitarti o non porti delle autosuggestioni. Oltre a fare lo scenografo mi piace il teatro, questo trasferirsi da qualche altra parte, concederti un piccolo palcoscenico personale dove interpreti qualcun altro, è questo che mi interessa e mi diverte. È un viaggio in prima classe in queste follie.
Da cosa si trae ispirazione una volta che si è stabilito tutto questo è difficile da dire, non ho un metodo realmente preciso. Può essere che cerchi per del tempo delle immagini per poi non farne niente, poi improvvisamente apri un libro e trovi un quadro altrettanto inutile, che però ti fa venire delle suggestioni.
MD: Lei per primo ha detto che il mondo del teatro, come altri ambiti culturali purtroppo, si trova in difficoltà. Le grandi scenografie si fanno soprattutto nell’opera lirica, anche per questioni economiche. Quali possibilità ha quindi oggi la scenografia nel teatro di ricerca contemporaneo?
FC: Se penso alla Raffaello Sanzio, Romeo Castellucci non è proprio economico, ma si è ritagliato uno spazio per cui i suoi spettacoli sono importanti. L’uso della scenografia è possente, tanto che a volte nemmeno un teatro di opera lirica se lo potrebbe permettere. Questo vuol dire che la sua ricerca in questi anni ha ottenuto credibilità, pur stando dentro una grammatica molto complessa, che non è esattamente nazional-popolare. Vorrei dire che bisogna essere molto bravi per ottenere intorno a sé un’attenzione di soldi e la gestione di una macchina molto complicata come quella di un qualsiasi spettacolo di Castellucci. Poi, una parte di povertà è scelta quasi grammaticalmente da parte del teatro. Leo De Berardinis e molti attori usciti dalla sua scuola non è che volessero fare un teatro povero, ma non sentono realmente la necessità di avere intorno a loro mega strutture o costumi che non siano quattro indumenti il più neutri possibile, perché hanno qualcosa di molto forte da raccontare e qualsiasi altra cosa forse li disturba.
MD: Mi riferivo anche a un teatro più giovane, più piccolo, magari fuori dai grandi circuiti…
FC: Il giovane dovrebbe tendere all’enorme, non al piccolo. Sfidare il mondo esattamente cercando di arrampicarsi sulla cima dell’Everest, uccidere i padri e sostituirsi a loro, non tentare di trovare un buchetto sotto la cantina in cui è possibile costruire un presepio. I giovani dovrebbero armarsi, armarsi fino ai denti di tutti gli strumenti e le armi che gli servono per dire «No. Al posto tuo ci sarò io». «Piccolo è bello», «se lo faccio da solo è bello», è tremendo e anche di una tristezza non consolatoria.
MD: Lei è docente presso l’Accademia di Belle Arti Urbino e l’Università La Sapienza. Qual è il suo rapporto con l’insegnamento?
FC: Il teatro è una scuola. Sono molto contento di insegnare qui in questo modulo, ma devo anche mettere a fuoco come si fa, ci stiamo ancora snasando. All’Accademia di Urbino invece, essendo una scuola molto pratica, sono riuscito a cortocircuitare il problema di come si insegnano il teatro e la scenografia. Ho la fortuna di insegnare a Urbino, una città bellissima dove quando esci da scuola hai un monumento dell’architettura straordinario, che ti fa venire in mente pensieri straordinari, perché la forma mentis è organizzata dalla forma urbis. Con i miei studenti mi sono permesso di fare della ricerca, il teatro insegnato è un po’ di una noiosità intrinseca, quindi dopo aver studiato il come si fa li obbligo, anche tirandoli per i capelli, a prendersi la responsabilità di fare una scenografia, a verificare le nostre idee. Poi, il teatro non è per tutti, o meglio non tutti sono per il teatro, spero che alcuni diventino ottimi spettatori. Quando ho cominciato la Scuola di Urbino, il mio maestro, Gabbris Ferrari, ci aveva già obbligato a fare degli spettacoli ed io ho continuato, perché è l’unico modo per capirci qualcosa. Secondo me, fare teatro è un modo per comprenderlo, anche comprendere che quel posto non sarà per te, ma quello che è importante è capirlo. Il palcoscenico non è un mondo dittatoriale, ma nemmeno democratico, è un mondo dove il potere è fluttuante. Il teatro è un continuo mediare tra se stessi e la forma di progetto che rubiamo all’architettura o all’ingegneria. In teatro ci sono un sacco di cose da pensare, come dicevo prima c’è Dio che “puff”, sputa e crea mondi, noi dobbiamo consegnare dei progetti. Quando lo scenografo consegna il modellino è a metà dell’opera, una volta che ha consegnato la scenografia è a tre quarti dell’opera e quando “zac” telón, si chiude tutto e lo spettacolo è andato bene, solo allora puoi dire ho consegnato, prima no, assolutamente no.
*Andreina Bruno, La scenografia di Francesco Calcagnini. Un viaggio nella mente del regista, Metauro Edizioni, Pesaro 2013
Immagine di copertina: Francesco Calcagnini, Stiffelio primi scarabocchi e superfici, regia di Guy Montavan, produzione Teatro Regio di Parma, 2012