Un paio di anni fa, il 16 aprile 2018, veniva caricato su YouTube il primo video in VR (Virtual Reality) mai girato nello spazio. La VR si affacciava allora al grande pubblico nelle fiere di scienza, nel web, ovunque nel mondo. Durante l’incontro “L’attore tra teatro, cinema e new media. Il teatro nella realtà virtuale”, tenutosi lo scorso giovedì 30 gennaio a Ex Vetrerie Sciarra dell’Università di Roma La Sapienza, il fondatore di Gold Omar Rashid l’ha forse giustamente paragonata al cinema delle origini, per il suo impatto straniante.
L’incontro, diretto da Guido Di Palma, Roberto Ciancarelli e Tiziano Panici, ha inaugurato un nuovo ciclo di “Per un teatro necessario”, progetto a cura del SARAS (Dipartimento di Storia Antropologia Religioni Arte Spettacolo) che vedrà ogni mese un ospite diverso – il prossimo: Michele Riondino, il 17 febbraio – per parlare di come si viene definendo il mestiere dell’attore in questi anni di ibridazione delle arti e delle tecnologie.
Nell’accelerazione vorticosa impressa alla tecnica dalla seconda metà del Novecento, la VR ha infatti rischiato a un certo punto di finire nel calderone generico delle ‘gran novità’, assieme a una serie di modalità e supporti di vita breve, obsoleti eppure incredibilmente recenti, come le videocassette, i dvd, i blu-ray, perfino il 3D. È proprio ora che lo smalto del primo lancio comincia a erodersi, però, che la VR sta diventando uno strumento di ricerca, di cui le arti iniziano a impossessarsi per un ragionamento sullo stato del mondo.
Questo è esattamente il presupposto di Segnale d’allarme – La mia battaglia VR, lo spettacolo diretto da Elio Germano e Omar Rashid “in scena” al Teatro Argot dal 4 al 16 febbraio. “In scena” perché quella a cui si assiste è una replica lontana nello spazio e nel tempo, una ripresa dello spettacolo originale La mia battaglia scritto da Germano e Chiara Lagani. Un lavoro che era uno scherzo drammatico, di fine intelligenza, una messa alla prova del pubblico forzato al confronto con la vacuità e la seduzione di un certo tipo di retorica politica: «La cosa più bella che è successa» interviene l’interprete e regista «è stata una signora che a un certo punto si è alzata durante una replica, in prima fila, urlando “Ma è teatro o realtà?”».
A questo proposito, durante l’incontro, qualcuno chiede dal pubblico perché trasporre in Virtual Reality uno spettacolo che si fonda sull’interazione con gli spettatori. La risposta dei creatori è articolata: «Sicuramente per diffonderlo il più possibile, perché affronta delle tematiche importanti per il nostro momento storico. Poi, la specificità della VR serve a salvaguardare il coinvolgimento a 360° dello spettatore, ma in verità, per l’utilizzo che ne proponiamo, diventa una critica al mezzo stesso. Perché la “manipolazione” del pubblico, che era il fulcro dello spettacolo originale, in questo caso avviene attraverso una tecnologia che nasce per una fruizione solitaria, e tende ad atomizzare gli individui. La nostra operazione politica è allora quella di proporre questo strumento in una dimensione collettiva, reinventarlo in una dimensione di sala».
C’è una cosa, infatti, in cui la VR differisce da tutte le altre tecnologie, ed è il punto di vista. La VR non cambia come vediamo qualcosa, ma da dove vediamo qualcosa. Cioè porta lo spettatore dentro la visione. Un presupposto che offre parecchie possibilità drammaturgiche: «La mia battaglia era un tradimento del pubblico: in platea ci sono anche delle comparse, il vero rapporto gli spettatori lo hanno con i loro applausi e le loro risate. Lo spettacolo è un lavoro su come la nostra opinione slitti o venga deviata a seconda dei comportamenti delle persone che abbiamo intorno, con cui sentiamo che stiamo condividendo qualcosa. È esattamente il meccanismo sfruttato dalle trasmissioni televisive con gli applausi o le risate finte. Alla fine dei conti, Segnale d’allarme è uno spettacolo “horror”: la VR ti porta in un mondo da cui non puoi fuggire. E il meccanismo si moltiplica, perché non puoi far altro che guardare. Se protesti, la tua protesta non si sente. Il gioco è proprio qui: vogliamo fare un discorso critico su come formuliamo il nostro pensiero politico, cioè attraverso dei social media dove pensiamo di “stare partecipando”, ma in realtà siamo trattati proprio in questo modo».
Del resto, segnala Guido Di Palma, «la tecnologia è un linguaggio autoritario per eccellenza: apparentemente ci si sente liberi, ma in realtà ci si può esprimere solo e nella misura in cui sono stati progettati i programmi». Mano a mano viene così delineandosi il filo conduttore del discorso: una meditazione critica sulla privazione della reale possibilità (o capacità) di partecipazione che sta ridefinendo una società intera, e a cui il teatro si oppone costitutivamente, semplicemente esistendo, quando non si estingue nello scimmiottamento di altre arti, altre velocità, altre tecnologie a cui spesso si sente di dover tener testa.
Il dibattito-intervista è proseguito vivace per due ore, toccando i temi della formazione attoriale, del mestiere dell’attore come lavoro di sparizione nel personaggio – Germano è stato a più riprese definito dalla critica un “trasformista” –, l’importanza della comunicazione involontaria del corpo e il disastro culturale dell’etica del “risultato”. Come asserisce, «la recitazione è un lavoro di immersione in un posto, e il tentativo di restarvi. È uno sforzo immaginifico. Bisogna combattere il demone dell’autocontrollo».
Non è un caso, viene da pensare, che sia approdato alla realtà virtuale, se per lui il teatro «è quando succede qualcosa, e c’è un pubblico. È la mia posizione da spettatore che rende una cosa teatro. In definitiva, forse, il teatro prevede una distanza e qualcosa che accade. Tu, che sei sul palco, devi stare tutto nel pubblico. L’incontro avviene a metà strada». Dovendo scegliere da che parte stare per guardare al tutto, alla fine dei conti Elio Germano si mette nei panni degli spettatori: praticamente, il trasformismo definitivo.