Da sempre i governi, ma anche i partiti e i movimenti, all’interno del proprio programma politico inseriscono frasi come: «spazio ai giovani», «occupazione giovanile», «promozione dei giovani talenti», «politiche di welfare rivolte ai giovani», intuizioni meravigliosamente nobili ma al netto delle cose il risultato positivo latita. Non è il luogo adatto per innescare uno scontro generazionale, né tantomeno per trasportare il lettore in un circuito in cui a dettar legge è il piagnisteo insofferente di una parte della gioventù contemporanea, ma “l’allarme ragazzi”, quelli problematici, di periferia, è sempre bene tenerlo sotto una chiara lente.
C’è chi si occupa di loro una volta all’anno, chi tutta la vita, chi una volta e mai più, similmente alle logiche del tradimento; in questo rapporto a due, politica/giovani, entra defilata la cultura e instaura una dimensione poligamica con le altre. Una vita coniugale però che pare avviarsi alla separazione in casa. Basti pensare alle librerie in crisi di cui ha parlato Fanpage in un articolo del 10 gennaio 2020: «Secondo il Presidente dell’Associazione Librai italiani, Paolo Ambrosini, sono 2300 le librerie chiuse negli ultimi cinque anni nel nostro paese. Da tempo è ferma in Parlamento una proposta di legge sul libro che potrebbe sostenere un settore in crisi». La grande distribuzione, il web, la velocità di acquisto appaiono come le cause di una rottura inevitabile, di un pensiero unificante per cui la cultura non paga e mai pagherà. Oltre è solo utopia.
Come per i libri anche il teatro subisce una personale Caporetto, molto meno plateale e con un’eco, purtroppo, non sempre adeguata. Negli ambienti teatrali, quelli formali, istituzionali e sorretti, giustamente, dal ministero, il presente più assiduo sembra essere un pubblico di signori, spesso ultra cinquantenni, che rinnova l’abbonamento di anno in anno per garantirsi il posto durante le messe in scena del teatro. È sicuramente un pubblico importante, i teatri hanno bisogno di fatturato e chi sorregge la nave sono proprio loro, una platea in età avanzata che tira avanti le stagioni e l’offerta, rinnovata o meno, degli spettacoli.
Dai dati dell’Annuario dello Spettacolo della SIAE si evince che nel 2017, rispetto all’anno precedente, «nell’Attività Teatrale si conferma una complessiva diminuzione di tutti gli indicatori. In flessione gli Ingressi (-1,70%) in linea con la diminuzione del numero degli allestimenti (Spettacoli -1,25%). Anche gli indicatori economici decrescono: la Spesa al botteghino (-3,87%), la Spesa del pubblico (-6,06%), il Volume d’affari (-6,75%)». Un leggero incremento in merito agli indicatori del sondaggio annuale della SIAE il teatro lo percepisce durante il 2018: «l’Attività Teatrale registra una buona ripresa rispetto all’anno precedente, con una inversione di tutti gli indicatori, che quest’anno si trovano in positivo. In aumento il numero degli allestimenti (Spettacoli +0,62%) e degli Ingressi (+0,87%). Anche migliori le performance degli indicatori economici: la Spesa al botteghino (+2,06%), la Spesa del pubblico (+2,84%), il Volume d’affari (+2,68%).» Considerando i dati del 2016, di fatto allargando l’indagine a un’analisi triennale degli indicatori, emerge che dall’inizio del triennio fino alle considerazioni statistiche del 2018 il numero degli spettacoli teatrali è passato da 136.676 (2016) a 135.806 (2018). Inoltre gli ingressi passano da 22.885.859 (2016) a 22.691.624 (2018) con uno scarto di circa 200.000 entrate registrate. Numeri, sondaggi, microanalisi e leggere oscillazioni statistiche compattano e sintetizzano una paura non di certo collettiva che vede, nella perdita sostanziale di consumatori della cultura, un danno irreparabile per la comunità. È ormai risaputo che il teatro è in crisi, un medium costantemente minacciato che resiste, non senza fatica, alle intemperie che la società gli propina. Leggendo la TOP 10 dei maggiori incassi degli spettacoli bisogna dedurre che, oltre alla crisi storica, il teatro soffre dell’assenza di un messaggio volitivo che sappia restituire al popolo il reale coinvolgimento di una cultura indispensabile.
Il territorio romano, ricco di teatri, gode di una fama non molto dissimile dal quadro nazionale: platee occupate in maggioranza dagli abbonati che hanno un’età media superiore ai quarantacinque anni. Lo stesso fenomeno si ripete con meno frequenza nei teatri “off” e si elimina quasi totalmente nei festival estivi come Dominio Pubblico e Attraversamenti Multipli, due realtà, in contesti urbani popolari, pensate per un pubblico spesso lontano dalle consuetudini dell’arte.
È un dato molto deprimente se si pensa al Teatro, con la T maiuscola, che assolve storicamente, e per indole primordiale, varie funzioni sociali e politiche; è una delle arti che amplifica la missione formativa, insegna, innesca il dubbio e può manipolare saggiamente il futuro riflettendo sui temi contemporanei. La prima considerazione da fare riguarda la natura puramente aziendale dei teatri, che, forse, a causa di una pressante condizione economica da sostenere, applicano ai biglietti un costo troppo elevato per i giovani; una gestione involutiva per il teatro stesso, che perde quell’impronta largamente descritta dal critico e giornalista radiofonico Antonio Audino in un’intervista rilasciata proprio al nostro giornale: «credo che il teatro oggi sia il luogo dove tutti ci ritroviamo in carne e ossa, non come nella virtualità dei mezzi contemporanei, per scambiarci delle idee che ci riguardano da vicino sulla nostra società e sui nostri disagi. Per questo il teatro ha una funzione politica». Inoltre, occorre tener presente l’arroganza con cui l’impronta aziendale sostituisce e sovrasta la missione millenaria dell’arte: è una sorta di auto-sabotaggio, un atteggiamento esiziale, operato sulla propria figura, carico di egoismo imprenditoriale. Una società, e di conseguenza un Teatro, che metta in relazione il proprio essere, che crei un luogo dove il pluralismo mescoli i vari strati della comunità è un’auspicabile equilibrio futuro. Ma perché i giovani fuggono dalle sale teatrali, perché non si vedono dinanzi ai teatri in attesa di entrare? La risposta, legittimamente, sembra dirigersi verso le dinamiche che regolano i costi dei biglietti; in parte è vero ma non è del tutto così. Siamo andati nelle stazioni della metropolitana e nelle piazze dei quartieri popolari a porre i nostri quesiti; un’indagine sociale a campione per chiarire gli interrogativi scaturiti da un’avvertita solitudine in alcune platee teatrali.
Roma, quartiere EUR; a parlare è Elisa, ventenne romana disoccupata, che considera il teatro all’interno di un’ottica negativa spesso condivisa dai ragazzi della sua età. Pesante, distaccato e difficile, l’aggettivazione della ragazza traduce il distacco di una cultura lontana, di un messaggio non recapitato: ha provato ad andarci «ma è troppo impegnativo». È un modo di porsi molto ostico quello di Elisa, quasi freddo, distaccato. Un chiaro riflesso della sfrontatezza giovanile mutabile in una pluralità di trame, che, trascurata dalle istituzioni politiche e culturali, perde l’occasione di un ipotetico riscatto sociale. Con lei è presente un suo amico, Michele diciannove anni, disoccupato anche lui, al quale però, in leggera contraddizione, piace il teatro anche se non lo frequenta. Lo reputa un intrattenimento sterile, un medium ormai invecchiato che non accenna a un miglioramento tangibile. È uno spazio chiuso in strutture ideologiche dannose, sfociate in un atteggiamento anacronistico e testardo tipico di una concezione elitaria della cultura. Potrebbe andarci a teatro ma, dichiara, «non mi è mai capitato e non vado a cercarlo come passatempo». Due esempi evidenti di contemporaneità che stride con quel mondo asettico e stilizzato della platea grigia, un panorama che appare nei luoghi comuni dei ragazzi, non solo studenti, come strutture noiose e annoiate da cui è meglio stare lontani. Garbatella, quartiere popolare romano ricco di romanticismi cittadini, che ha fatto della romanità e dell’essere romanista il proprio cavallo di battaglia. Questa volta a parlare è Margot, una studentessa di sedici anni che confessa di andare a teatro ma poi si corregge e dice: «l’ultima volta ho visto Ragazzi di vita di Pasolini, con la scuola; per conto mio ho visto solo Il lago dei cigni e uno spettacolo cinese» e sostiene fortemente che «i teatri dovrebbero fare degli sconti più significativi in modo da poterci andare con più facilità». Alzo il tiro; mi fermo in un bar a metà strada tra la Stazione Tiburtina e il Policlinico Umberto I. Roberta fa la barista, ha trentacinque anni e dice con fierezza che l’unica volta in cui è andata a teatro lo ha fatto «il 28 dicembre, per un regalo, al Sistina a vedere il musical Mary Poppins»; inoltre «se vogliono farci avvicinare 90 € in quinta fila non è possibile. I prezzi devono scendere: è stato un regalo di Natale ma ci vai una volta all’anno». Chiede maggiori agevolazioni, non solo per gli studenti, in quanto «c’è un mondo intero di persone che vive lavorando e che non ha la possibilità di usufruire del teatro». Oltretutto Roberta parla di problematiche che riguardano l’informazione e la comunicazione dei teatri, lamentando una flebile visibilità dell’offerta stagionale sui canali televisivi: «Secondo me non c’è informazione, manca la pubblicità. Se vai a teatro prima ti fanno vedere la pubblicità degli altri spettacoli, come quando vai al cinema; però il trailer del film in uscita lo danno anche in televisione. Bisognerebbe ingrandire l’interesse del teatro nei confronti del popolo».
Forse la distanza si percepisce, da entrambe le parti, ma la si rende incolmabile da un silenzio sterile; un gioco di sguardi, di mondi paralleli a tal punto vicini da non incontrarsi.
Quartieri popolari, rioni, ragazzi autenticamente di vita appaiono come scogli inarrivabili per una cultura che sembra diventare sempre più elitaria e classista. Ecco dove sono, giovani e meno giovani, nel limbo del mancato riconoscimento identitario sociale; collocati tra due fuochi che lottano a distanza, tra due politiche più bipolari che mai: una che ha reso l’arte uno strumento esclusivo e borghese, formalizzata in piccole riunioni per pochi eletti intenti a discutere di temi caldi senza tener conto dell’assenza militante dei protagonisti; l’altra, che reputa il teatro e ciò che produce beni immateriali puro appannaggio della nuova sinistra (non proprio di primo pelo) chic e pedante. La corsa al fatturato, le dinamiche di bilancio e l’apparente perdita dei precetti morali della cultura creano orfani sociali, dispersi urbani voluti e preventivati dalla frenetica società contemporanea.