Incontro con Michele Riondino: il mestiere dell’attore fra formazione, pedagogia e molteplicità di linguaggi artistici

«Il fatto di sapere che comincio questo film e morirò in questo film e in questo modo mi dà la possibilità di buttare dentro tutta una serie di riflessioni, elementi che, se io dovessi pensare a quel personaggio appiattendolo alla mia vita reale, non mi permetterebbero di avere la stessa libertà. È questa la bellezza del lavoro che faccio, l’interesse che ho e nutro per quello che faccio sta proprio nell’avere la possibilità di non lasciare nulla al caso». A parlare è Michele Riondino, attore di teatro, cinema e programmi televisivi diplomatosi all’Accademia d’Arte Drammatica, ospite del secondo appuntamento del ciclo “L’attore tra teatro, cinema e new media”, costola del più ampio progetto “Per un teatro necessario”, curato dal SARAS (Dipartimento di Storia Antropologia Religioni Arte Spettacolo). L’analisi delle modalità con cui l’arte attorica si declina in funzione dei diversi supporti mediali costituisce il proposito di questa iniziativa che, mercoledì 4 marzo, vedrà come suo prossimo ospite Alessandro Serra. La platea dell’incontro è composta, in alta percentuale, da studenti universitari che stanno conseguendo una laurea nell’ambito delle discipline spettacolari e che aspirano a professionalizzarsi in questo mondo lavorativo: per questo, l’interesse verte in modo del tutto naturale sulla formazione e sul tipo di percorso didattico perseguito da Riondino. L’attore, che, come sottolinea il professor Guido Di Palma, è un reduce dell’Accademia, racconta di un rapporto conflittuale instaurato non solo con i docenti, ma radicatosi con l’intero sistema didattico che questa proponeva.

«Quando finisci l’accademia devi combattere contro quello che sei diventato […]. In quegli anni cosa ho imparato? Ho capito esattamente quello che non volevo fare. L’accademia mi ha insegnato, e la rifarei esattamente per come l’ho fatta, tutto quello che io non avrei mai fatto nella vita». Si tratta di un tipo di relazione che alcuni studenti conoscono molto intimamente: l’incontro-scontro con un’istituzione scolastica che sembra negare ogni possibilità di dialogo che aiuti a crescere, a costruire un pensiero critico. Il senso di sconfitta e smarrimento che questa impossibilità porta a provare non è distante da quello che si legge nelle pennellate di Goya nel suo Saturno che divora i suoi figli.  Eppure, Jerzy Grotowski definirebbe questa strada la “via negativa” e che lo stesso Riondino spiega essere stato il mezzo attraverso il quale è riuscito a «sviluppare un’identità artistica e personale».

Per analizzare la differenza di potenziale e cortocircuito che si crea nel passaggio che l’attore compie dal mezzo teatrale a quello cinematografico, Riondino recupera una domanda che era stata posta dal professor Guido Di Palma a Elio Germano in occasione del precedente incontro (di cui abbiamo parlato qui): «che cos’è per te il teatro?». Nonostante l’apparente ovvietà della domanda, attraverso le molteplici risposte che questa può avere è possibile non solo esplicitare la posizione dell’interlocutore rispetto a questo linguaggio artistico, ma anche rendere possibile lo studio delle sue caratteristiche ontologiche. «Per me teatro è un luogo qualsiasi nel quale ci sono due fazioni, due identità di persone: gli ascoltatori, spettatori e chi agisce, gli attori, che stipulano un patto. Il teatro è un patto attraverso il quale si stabilisce che in quel luogo si è totalmente reali: ecco perché per me il teatro è realtà, è vero, mentre il cinema è finzione pura. Il teatro invece è pura verità. È una verità che viene patteggiata prima con lo spettatore. Attraverso questo patto io attore mi impegno a farti credere che quello che vedrai è reale a patto che tu potrai interrompere e sospendere l’incredulità. Quindi dalla tua predisposizione a credermi, facciamo in modo che quello che succede sia reale, ma è un paradosso reale dal momento che quello che succede è totalmente finto: non c’è nessun combattimento, quella stanza è finta, il castello non esiste, il fantasma è uno tutto truccato in faccia. Eppure, quello risulta reale perché, in due, ci stiamo impegnando a credere che quella cosa sia vera».

Il cinema, nel suo paradigma più drastico, ossia quello hollywoodiano, crea un mondo digitale iperrealistico, in cui ogni lacrima sembra proprio una vera lacrima, in cui ogni abbraccio sembra proprio un vero abbraccio e in cui agli attori vengono attribuite ottime o pessime performance nella misura in cui recitano o meno proprio come nella vita vera: questo mezzo viene giudicato da Riondino più falso, più finto, più costruito rispetto alla dimensione teatrale. Il presentare agli occhi dello spettatore quello che già conosce, quello di cui fa esperienza nella sua quotidianità risulta essere un appiattimento dal punto di vista artistico e non una ricchezza. L’attore spiega poi: «Non vogliamo cedere a quegli elementi che, invece, nel cinema rendono tutto molto reale. La cosa assurda è che la verità del cinema viene filtrata attraverso un obbiettivo che tu poi vedi in uno schermo, altro non è che l’insieme di tante finzioni. Quello che noi facciamo davanti alla macchina da presa è di una difficoltà infinita proprio perché vogliamo riprodurre qualcosa di reale. Invece il teatro non ti mette in questa condizione: non devi riprodurre qualcosa di reale, devi produrre qualcosa di credibile. Ecco perché per me il teatro è molto più semplice del cinema: ho la possibilità di creare un linguaggio che non è riconoscibile, che non è comune. Il linguaggio reale del cinema è tutta roba che noi conosciamo già quindi rivederla al cinema e vederla in uno schermo da spettatore è fin troppo semplice e, da attore, è troppo difficile e complessa. Per questo preferisco la sospensione della realtà: io voglio raccontarti qualcosa e cerco di inventarmi un linguaggio attraverso il quale tu possa mettere in dubbio che quello che accade fuori da questa stanza sia l’unico linguaggio possibile».

Un altro aspetto fondamentale che è stato estrinsecato nell’incontro, grazie anche alle domande poste dal pubblico, ricche di sollecitazioni e stimoli, è stato il tentativo di descrivere in che cosa consista l’artigianato dell’attore, l’arte del suo fare. «Interpretare un personaggio, vivere la vita di qualcun altro, rubare la vita a qualcun altro è un modo unico e, da parte mia, irripetibile per poter vivere la vita», spiega Riondino – e, non a caso, il suo libro si intitola proprio Rubare la vita agli altri, e aggiunge: «Trovo molto più facile vivere le vite degli altri, molto più semplice: è un modo per deresponsabilizzarsi, naturalmente. Però è l’unico modo appagante, stimolante che ho di farmi delle domande e accontentarmi delle risposte perché, dall’altra parte, nella vita reale, le domande che ho non prevedono una risposta immediata, prevedono un’elaborazione di un’idea che arriverà alla fine dei miei giorni e, solo all’ultimo dei miei giorni, arriverò a dire: “è così che doveva finire?”. E non mi sarò divertito abbastanza come in un film».

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