Le ragioni folli della Rivoluzione. Claudio Gioè e il suo primo «Marat/Sade»

Non è raro che certi attori, a un certo punto della loro carriera, sentano il bisogno di mettere un piede fuori dalla scena e sperimentarsi nella regia. E non è raro che lascino l’altro piede comunque in palcoscenico, non rinunciando a essere attori. È questo il caso del Marat/Sade che il 28 febbraio di quest’anno bisestile ha debuttato in prima nazionale al Teatro Biondo di Palermo, in cui Claudio Gioè indossa i panni del celeberrimo marchese de Sade e ne firma la regia (in collaborazione con Alfio Scuderi). Ora, per i più avvezzi al mondo del teatro, questo titolo del drammaturgo tedesco Peter Weiss, non può non rimandare a un grande uomo del Teatro (quello maiuscolo), Peter Brook, che lo mise in scena nel 1966 con la Royal Shakespeare Company a New York (esiste una versione cinematografica dell’anno successivo). Scegliere il Marat/Sade come prima regia è ambizioso. E coraggioso, anche.

Marat/Sade è un gioiello in versi sulla rivoluzione. Weiss prende spunto da un dato storico: tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, nel manicomio di Charenton furono promosse, dal direttore Coulmier, una serie di rappresentazioni con i pazienti della struttura. Tra loro vi era anche il noto marchese de Sade, il quale mise in scena anche alcune sue opere. Di fatto, il dottor Coulmier, intuì molto prima dello psicodramma le possibilità del teatro come terapia. Weiss, dicevamo, parte da questo dato e immagina che i matti, guidati dal regista-marchese, mettano in scena l’assassinio di Jean-Paul Marat scritto dallo stesso Sade. La pièce è di fatto uno scontro tra i due rivoluzionari: l’uno, de Sade, deluso dall’Egalitè che aveva infiammato il cuore dei francesi rivoluzionari, e l’altro, Marat, che di quell’uguaglianza è difensore ostinato. E dallo scontro affiora tutta la crudeltà della Rivoluzione. 

Foto di Rosellina Garbo

I primi dieci minuti sono già ricchi di citazioni del celebre allestimento, nei costumi, nel trucco, nel legno del pavimento, nel disegno dei movimenti.

La scena, di Enzo Venezia, che cura anche i costumi, è una gradinata in legno, lo stesso del pavimento, come un’assemblea, l’Assemblea Nazionale; sul fondo delle tubature, probabilmente per suggerire l’ambientazione da bagno che il testo riporta. La compagnia di attori che fanno i matti che fanno gli attori è energia, esplosione, musica, urlo – confusione, a volte – e tutti portano fino in fondo il loro compito folle. Nei panni di Marat, preda di un incessante prurito, intento a scrivere proclami, a mollo nella tinozza come vuole la storia, Filippo Luna, sempre bravo e convincente. De Sade, invece, guardingo e pronto all’attacco, è Claudio Gioè, che – il personaggio glielo chiede – dà libero sfogo all’ego e non manca di impeto quando i discorsi si infiammano. Tra gli altri ruoli spicca il banditore, Silvia Ajelli che guida lo spettatore nei continui salti temporali e spaziali della drammaturgia, con ritmo e leggerezza. E poi Antonio Alveario nel ruolo del dottor Coulmier, Gaia Insegna nel ruolo di Simonne, Giulia Andò nel ruolo della narcolettica assassina di Marat, Charlotte Corday, Fabrizio Romano in Duperret, Maurizio Bologna nei panni del monaco Jacques Roux. Con loro in scena i quattro musicisti previsti dall’autore, che guardava a Bertolt Brecht, Giulio della MonicaErmanno DodaroRaffaele Pullara e Germana di Cara, suonano e cantano le composizioni originali di Andrea Farri

Le due ore con intervallo scorrono, lo spettacolo è godibile, certo, si preme l’acceleratore sui toni divertenti e su quelli più eroici (preferiti a quelli epici), tenendo l’attenzione del pubblico della seconda replica, numeroso ma, come si suol dire, tiepido. 

Foto di Rosellina Garbo

I pazzi si applicano a recitare la Rivoluzione. Weiss sceglie proprio i pazzi. Che non hanno più il proprio posto nella realtà. La rivoluzione ha bisogno del coro, del sangue di molti disposti a perdere la propria individualità, delle marcette, ha bisogno, la rivoluzione. Ha bisogno di chi crede a ciò che continuamente viene ripetuto. E, rovescia i poteri per ristabilirli, spesso, la rivoluzione. Caccia il tiranno, comincia col grido «Viva la Rivoluzione!» e finisce col coro «Viva Napoleone Imperatore!». Ma, di contro, richiede perseveranza, la rivoluzione, e tempi duri, e quindi forse meglio prima che si stava meglio, meglio riconoscersi in un uno che sappia guidare tutti, difendere la patria, restaurare l’individuo forte, con pieni poteri, vien da dire, – che non si dica dittatore! – illuminato. 

Il testo offre molte possibilità di riflessione, e l’idea di riproporlo merita un riconoscimento. Forse l’allestimento poteva essere più coraggioso – più rivoluzionario? – meno legato all’imponente e ingombrante predecessore.  

Dopotutto, se è vero ciò che dice Marat «Il nuovo viene fuori solo da goffi tentativi», e quindi perché non tentare il nuovo anche a costo di essere “goffi”?

Foto di Rosellina Garbo

MARAT/SADE

di Peter Weiss
traduzione Ippolito Pizzetti
regia Claudio Gioè
con la collaborazione di Alfio Scuderi
con Claudio Gioè e Filippo Luna
con Silvia Ajelli, Antonio Alveario, Giulia Andò, Maurizio Bologna, Giulio Della Monica, Germana Di Cara, Ermanno Dodaro, Gaia Insenga, Raffaele Pullara, Fabrizio Romano

scene e costumi Enzo Venezia
musiche originali Andrea Farri
luci Luigi Biondi
suono Pippo Alterno
assistente alla regia Valentina Enea
assistente alla scenografia Giusi Giacalone
assistente ai costumi Ilenia Modica
direttore di scena Sergio Beghi
produzione Teatro Biondo Palermo

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