La cultura è materialmente ferma; lo stop imposto dall’espansione virale ha bloccato, inevitabilmente, la produzione e l’offerta dei teatri. L’unica piattaforma sociale condivisa, oltre alle interminabili e rigide file dei supermercati, è il web, uno spazio infinitamente libero ed enorme che include, negli involuti percorsi comunicativi, una consistente mole di proposte attoriali, originate dal distanziamento sociale. È il momento delle risposte. La dura crisi culturale, economica e politica, che potrebbe derivare dalla potenza del Covid-19 aleggia inesorabilmente sul futuro globale; la fase 2 del virus, la sempre presente precarietà del settore, le derive della politica ungherese e il tentativo di recupero della normalità preoccupano tanto quanto il contagio. Insieme ad Antonio Audino, nota firma del domenicale de «IlSole24ore» e giornalista radiofonico di RaiRadio3, tentiamo di analizzare la situazione, artistica ed economica, del teatro e dei lavoratori dello spettacolo all’interno di una dimensione sociale visibilmente modificata.
Gianmarco Castaldi: «Le retoriche del “dopo” fanno bene al cuore. “Dopo” torneremo ad abbracciarci, a tornare là fuori, “dopo” riavremo le nostre vite sequestrate, “dopo” torneremo al gusto del caffè del bar, delle chiacchiere a distanza ravvicinata, del contatto fisico, delle strade piene». Sono le parole di Alessandro Robecchi, che in un articolo su «Il Fatto Quotidiano» auspica di ritornare a una normalità priva di ingiustizia sociale e priva di precarietà. Quali sono, invece, gli auspici per un settore, il teatro ma più in generale la cultura, che fa della precarietà il suo cavallo di battaglia? Quale “dopo” per il teatro?
Antonio Audino: Il teatro italiano, nella sua massima parte, è un teatro di scritturati, quindi di precari. È un fenomeno che si estende a tutte le varie composizioni, dai grandi attori alle piccole compagnie, si è sempre composto di contratti temporanei e non ci sono strutture economicamente solide, tranne quelle finanziate dallo stato come i Teatri Nazionali, che, per fortuna, possono contare su un finanziamento. Il mondo del teatro fatto da registi, attori, costumisti, tecnici e altre figure non meno importanti è un settore basato sul precariato, alto o basso, ma comunque un mondo che vive lavorando; di conseguenza, dopo questo periodo, verranno sicuramente dei tempi difficili, ad esempio, si prevede l’annullamento della stagione estiva e quindi si elideranno molti spettacoli. Io credo che, quando usciremo da questo periodo di isolamento così forte, avremo tutti ancora più voglia di ritrovarci, di stare insieme tra la gente e di sentire e vedere spettacoli intelligenti. Secondo me la prima cosa che faremo uscendo di casa, quando si potrà farlo, sarà proprio cercare un teatro aperto dove stare con gli altri; questo a mio parere darà nuova energia e io mi auguro anche nuova linfa dal punto di vista economico.
G.C.: Crede che ci sarà una risposta adeguata, per ovviare alle problematiche causate dallo stop imposto dal virus, da parte delle istituzioni?
A.A: Lo vedremo più avanti nel tempo. Sicuramente il Ministero e il Governo adotteranno delle misure per sostenere il precariato, come stanno facendo in altri ambiti. Io immagino che lo farà anche per i settori dello spettacolo, quindi una forma di sostegno ci sarà.
G.C: Jacopo Fo, in un’intervista rilasciata a «Repubblica», si è detto favorevole al taglio del 50% dello stipendio dei parlamentari. Potrebbe essere una scelta utile per integrare le indennità dei prossimi mesi?
A.A.: Bè, mi sembra un’idea un po’ curiosa, un po’ difficile da sostenere. Io, francamente, non credo che il problema siano gli stipendi dei parlamentari.
G.C.: Dovrebbe rispondere l’intero sistema.
A.A.: Esattamente. Ci dovrà essere una risposta più estesa da parte naturalmente delle istituzioni, ma sono convinto che ci sarà, come in questi giorni c’è rispetto a tante forme di precariato. Se poi si dovesse ricorrere a iniziative speciali, io credo che potrebbero svilupparsi moltissime idee, anche chiedendo assistenza allo stesso pubblico. Mi colpisce molto positivamente la notizia che molti spettatori, di teatri o di istituzioni liriche e di concerti, decidono di non recuperare l’importo del biglietto acquistato prima dello stop generale. Ecco; potrebbero mettersi in moto delle forme più spontanee e diffuse di sostegno al teatro e più in generale alla cultura.
G.C.: Ora, mettendo da parte le strategie economiche che interessano il teatro, credo che sia utile tracciare una linea di ciò che sta avvenendo all’interno di questo mondo così scosso dalla crisi. Come si organizzano gli artisti? Come rispondono a questo periodo in cui si è distanti dalla platea?
A.A.: Essendo un inguaribile ottimista, io penso che in questi giorni stia arrivando, alle persone, l’importanza del teatro; molti artisti e molte strutture teatrali reagiscono sperimentando nuove modalità di esibizione, come la dimensione virtuale oppure cercando delle forme di contatto innovative e differenti, con l’assenza del pubblico o riproponendo filmati d’archivio. Queste iniziative riscuotono un grande successo, un grande seguito. Quindi sicuramente il teatro sente di dover fare la sua parte in questo momento; percepisce che non può isolarsi ed evitare di dialogare con gli spettatori e ci riesce perché viene ascoltato.
G.C.: È utile sconfinare, da parte degli artisti, su lidi più accessibili, in questo periodo, come il supporto video, per mantenere attiva una sorta di produzione o crede che sia più logico restare nella riflessione, nella ricerca magari silenziosa di un nuovo modo di comunicare mediante il teatro?
A.A.: Il fatto che ci sia un’offerta, una tipologia diversa di proposta culturale da parte degli attori, delle compagnie, degli artisti, credo che sia una cosa interessante e viva. È vero, forse, che stiamo arrivando a un momento di over-produzione, perché appunto il materiale è tanto, non si riesce a seguirlo e spesso si perde tra i vicoli bui della comunicazione. Probabilmente si arriverà a una saturazione di questo prototipo di spettacolo che tra le altre cose è di tipo virtuale, quindi non risolve la questione principale per cui il teatro è un luogo che si visita fisicamente, andando a vedere altre persone che fisicamente compiono delle azioni. Detto questo, mi sembra bello che gli artisti sentano la voglia di farsi vedere, di mostrarsi tramite dei palchi alternativi.
G.C.: Di certo è una dura prova anche per il giornalismo culturale che ha perso la fonte primaria da cui attingere le proprie riflessioni; dinanzi a una materia teatrale così presente e pressante sul web, come si pone la critica teatrale?
A.A.: Chiaramente, in questo periodo, la critica subisce una battuta d’arresto perché gli spettacoli sono fermi, non ci sono debutti, quindi manca qualcosa da comunicare rispetto a quello che accade in scena. Io credo che, più che la critica, il giornalismo culturale debba continuare a parlare di teatro e a tener viva l’importanza dell’arte teatrale, cercando di focalizzarsi su altre prospettive e nuove angolature. È un po’ lo sforzo che stiamo facendo tutti; noi a Radio3 cerchiamo di raccontare le reazioni dei teatri di tutta Italia e quali sono le misure che adottano, continuiamo a mettere in onda molta produzione teatrale proveniente dai nostri archivi e riscontriamo un alto gradimento da parte degli ascoltatori. Da questo punto di vista, ci interessa continuare a suggerire l’idea che il teatro sia uno spazio molto particolare per riflettere sulla nostra società, per scambiarci delle idee; è sicuramente un modo di lavorare diverso ma tentiamo di ragionare, come stiamo facendo durante questa intervista, su cosa succederà dopo e cosa dovremo fare al termine di questa situazione.
G.C.: Un’ultima domanda che si allontana dalle considerazioni sul teatro. Lei è un giornalista, un critico teatrale, di conseguenza assolve a una funzione che tende ad alimentare la riflessione comune, a incentivare il confronto sociale; nella giornata di ieri (30 marzo) il Parlamento ungherese ha affidato pieni poteri, per contrastare il virus, a Viktor Orban, il leader di una delle nazioni più a destra d’Europa. Il Satrapo ungherese potrà abrogare ogni elezione, rafforzare le restrizioni senza consultare la minoranza e delegittimare l’assemblea legislativa in qualsiasi momento. È uno scenario che potrebbe persistere anche dopo l’assopimento della pandemia. Quanto la spaventa una situazione di questo tipo?
A.A.: Direi che questa è la domanda centrale. La situazione che riguarda Orban è di una gravità straordinaria e nei giorni scorsi ci sono state anche in Italia delle linee che potremmo definire, ironicamente, un tantino complottiste su quanto questa separazione, che ci vede costretti dentro casa, possa in qualche modo distorcersi in una forma impositiva che potrebbe diventare un sistema di controllo totale. Anche in questo caso, mi sento sempre mosso da spinte ottimistiche; mi sembra che l’Italia sia un paese completamente diverso, per fortuna, e che abbia anche delle strutture democratiche molto solide che sarebbe difficile scalfire. Sì, è vero, questi sono i giorni della paura, della diffidenza e dell’isolamento e non c’è dubbio che è successo qualcosa di anomalo. Però mi piace vedere nella società le reazioni di senso contrario: la solidarietà, la gente in fila per donare il sangue, le persone che spendono anche per chi non può, l’attenzione verso i medici e gli infermieri che lavorano con dei turni massacranti. Ecco, tutto questo lo sento in maniera molto palpabile e credo che questa sia una forza che si sta manifestando e che sarebbe difficile da comprimere. Penso che in questo momento, forse una volta tanto, l’Italia si senta davvero unita e solidale nel dover attuare delle forme che siano a vantaggio di tutti. Lo dico con convinzione. Se esiste questo, vuol dire che sarà difficile attuare dei sistemi “repressivi”. Forse sono un pazzo ottimista, però lasciatemi pensare così.