È tutto fermo da più di un mese. Spesso i telegiornali hanno mostrato il planisfero ricoperto di pallini rossi, bollini di malattia. Sembra un apocalittico gioco da tavolo, ma non lo è. Il Covid-19 sta mettendo a dura prova la salute delle persone, l’economia dei singoli stati, anche quelli più strutturati, e gli equilibri mondiali. In tutto questo sono, ovviamente, chiusi i teatri, che non sono che finestre sul mondo.
Proviamo a confrontarci su quanto accade in questo tempo con Antonio Viganò, regista, autore e fondatore della compagnia Accademia Arte della Diversità – Teatro La Ribalta – si legge sul curriculum: «Compagnia costituita in maggioranza da attori e da attrici in situazione di “disagio psichico” che appartengono al teatro in forma professionale». La Ribalta è una realtà di respiro internazionale, che oggi ha casa a Bolzano nello Spazio T.RAUM, spazio inclusivo, luogo in cui prendono forma idee, e si ricerca la poesia nella diversità. Viganò, tra l’altro, conduce un laboratorio di teatro sociale organizzato da Asinitas dal quale verrà prodotto anche un documentario, realizzato da alcuni studenti del Dipartimento di Storia Antropologia Religioni Arte Spettacolo dell’Università di Roma Sapienza.
Marta Cirello: Per una realtà come la Compagnia La Ribalda e l’Accademia Arte della Diversità che cosa significa restare senza teatro? Come state affrontando questo momento?
Antonio Viganò: La situazione per noi è complicata, perché ho necessità di tenere alta la tensione con i miei attori che hanno evidenti fragilità psichiche. Costantemente lavoriamo per evitare che sprofondino in qualche tunnel di solitudine o di apatia, dal momento che sono facili a cadere nelle abitudini, proprio perché si devono proteggere e c’è bisogno di un lavoro molto intenso, sia fisicamente che mentalmente, per tenere in vita questa passione. Ecco, ho paura che questa distanza ci allontani, ci impoverisca. Perciò non vedo l’ora di ricominciare le attività di laboratorio, di formazione, di sensibilizzazione, di ricominciare ad ascoltare e ad ascoltarci, a raccontarci.
M.C.: Se ciascuno di noi, come individuo, rischia lo spaesamento, immagino per chi ogni giorno lavora, come voi, per costruire e alimentare un gruppo.
A.V.: Mi preoccupa la distanza, perché noi siamo sempre stati un gruppo, una comunità. Perché qualcuno dei nostri attori rimane a casa da solo, con i pensieri che viaggiano chissà dove. Io ho anche una responsabilità sociale – per quanto non sia l’unica, né la maggiore – rispetto ai miei attori e cerco di fare il possibile per mantenerla. Questa “prigionia” è difficile per me, immagino che sia molto difficile per loro. Mi viene in mente un bellissimo pensiero di Emma Dante, che diceva che il teatro è un po’ come un ospedale in cui si curano le anime, magari non le guariamo, ma cerchiamo di fare in modo che le nostre problematiche diventino possibilità di immaginarsi diversi. Ci manca questo luogo. Pesa tantissimo questo metro che dobbiamo mettere tra di noi, pesa già nella vita, immaginarsi in teatro, in cui la presenza dello spettatore si contamina e ci si contagia a vicenda. Noi ci stiamo chiedendo quali possibilità abbiamo di andare incontro alle persone, come incontrare gli spettatori che non possono più venire a trovarci. Tutti noi ci chiediamo quanto tempo trascorrerà prima di poter guardare le loro facce, seduti davanti a noi. Rivedremo i loro occhi e anche le loro bocche, i loro sorrisi.
M.C.: In questo mese i teatri e i singoli artisti hanno dato vita a moltissime iniziative sul web. Cosa ne pensa?
A.V.: Lo streaming non mi interessa. Un po’ perché non è il mio strumento, un po’ perché il dibattito, che esiste ed è attivo, non mi appassiona, un po’ perché credo che sia un’occasione persa per il teatro. Vorrei un po’ di silenzio, qualche economia di market in meno e più vicinanza alla sofferenza dei lavoratori più deboli di questo settore. Credo, come teatrante, che, in questo momento, la necessità non dovrebbe essere tanto quella di alimentare l’interesse di chi ora non posso incontrare con ciò che ho fatto prima, restando separato dal mondo. Ogni artista dovrebbe provare a essere narratore di questo tempo – e di narrazioni ce ne sono migliaia da fare! –, a stare dentro a questa ferita fatta di mancanza di una dimensione corporea, di solitudine, di isolamento, di peste, di untori… Noi dovremmo stare lì. Come fa Mariangela Gualtieri, che non mette in streaming le sue vecchie poesie, ne costruisce una nuova e ci restituisce, da poetessa qual è, narrazione di questo tempo. Bisogna scrivere di teatro, inventarselo, sennò mi dà l’idea che il teatro sia come un corpo a parte in questa società. E che senso ha? Per dimostrarti che esisto ti faccio vedere uno spettacolo? Va bene come passatempo, ma finisce lì. Non appassiona. Appassiona se gli artisti si mettono in gioco e cercano di raccontare questo momento, che è un momento in cui si può indagare la condizione umana. Non è questo il senso del nostro fare ogni giorno? Il rischio dell’autoreferenzialità è molto forte se non si dialoga col mondo. Questo, è un paradosso, è un momento fragile, ma è fertile. Abbiamo la possibilità di interrogarci. Finché tutto andava bene ce ne dimenticavamo spesso.
M.C.: Come ne usciremo?
A.V.: C’è tanta retorica su questo. Andrà tutto bene? Non so se andrà tutto bene, ho paura di un avvelenamento del tessuto sociale. Siamo pieni di incubi, e, forse, questo potrebbe essere il nostro compito di oggi: trasformare gli incubi in sogni.
M.C.: Quanto fa la differenza essere parte di un gruppo, di una comunità, nel progettare il futuro?
A.V.: Per noi è molto importante, perché siamo una struttura composta in maggioranza degli artisti, un nucleo, una compagnia stabile. Questo ci dà anche molte garanzie, in un certo senso, perché oggi la solitudine più pesante è quella degli attori e dei tecnici. Le strutture riceveranno ancora i soldi dal Ministero (MiBACT), ma il problema è per i singoli artisti che lavorano a giornata. Cosa ne facciamo di queste singole identità? Lì bisogna mettere lo sguardo, perché il teatro è fatto soprattutto – ogni tanto lo si dimentica – di persone, che sono gli attori, interpreti principali di questa arte. Se ci dimentichiamo di loro come singolarità rischiamo molto.
Poi c’è il problema delle piccole compagnie, che si autoproducono, che riuscivano a rientrare coi costi solo grazie alla vendita degli spettacoli. Questa crisi creerà un po’ di danni.
M.C.: Quale potrebbe essere l’intervento delle istituzioni per limitare questi danni? Può essere solo quello di un sostegno economico?
A.V.: Il problema è che i risultati dei nostri interventi culturali si vedono solo a medio-lungo termine.
Però, se dovessimo perdere il patrimonio importantissimo delle piccole compagnie, ci impoveriremmo, si perderebbero delle possibilità di sguardi e perderemmo una buona parte degli artisti che hanno ancora voglia di cercare e mettersi in gioco. Questo, allo stesso tempo, rafforzerebbe il concetto di teatro pubblico come istituzione imponente, una grande cattedrale in cui tutto passa lì dentro, in una forma di egemonia culturale dove è visibile ciò che già si conosce. Forse bisognerà rivedere il sistema da questo punto di vista, con interventi strutturali, immaginare che il teatro pubblico possa tenere in vita una moltitudine di sguardi, che possa essere non solo un ente produttivo e distributivo, ma una casa che accolga e dia visibilità a una miriade di possibilità di teatro. Se non vengono salvate queste piccole realtà, si impoverisce il tessuto culturale, perché è in questi spazi piccoli che nascono le nuove visioni, le nuove artisticità: i vari Marco Paolini, Emma Dante, hanno sperimentato in questi luoghi, quando sono arrivati al teatro pubblico erano già consolidati. Bisogna ridisegnare il senso del teatro pubblico. Faremo tutti fatica a riportare la gente in teatro, a riabituarla a questa vicinanza, ma più di tutti i teatri pubblici con i grandi numeri di abbonati. Forse, quindi, è anche venuto il momento di cambiare questo paradigma per cui il finanziamento pubblico sottostà alla dittatura dei numeri. Forse è il momento di mettere in crisi questo criterio. Perché se io lavoro nelle aree marginali, nelle aree di disagio, nelle aree in cui la ferita sociale è più forte, non posso avere un ritorno da un punto di vista economico, o di numeri, ma ho un importante ritorno di tipo culturale. Se questo aspetto non c’è un modo per riconoscerlo e “calcolarlo”, se siamo solo costretti a fare i numeri, è un problema.
M.C.: Questo vale a maggior ragione, dal momento che si immagina di dover convivere con il “distanziamento sociale” per un tempo non proprio breve.
A.V.: Certo. Stare dentro i numeri richiesti oggi è complicato, i criteri ministeriali evidentemente dovranno saltare, ma il problema sarà disegnarli di nuovo. Ma penso che, per ciò che riguarda la nostra funzione, questa potrebbe essere un’occasione proficua, per affrontare i temi che possano parlare oggi alla polis, per domandarci il senso del nostro agire.
M.C.: Più volte lei ha parlato della necessità di una malattia per curare il teatro. Isolando questo concetto dal più ampio ragionamento entro cui lei lo inserisce, lo prendo, mi conceda, così com’è: questa malattia, questo virus, è quindi un’occasione per curare il teatro?
A.V.: Bisognerà farlo per forza. Immettere un virus per creare anticorpi. Infettare per immunizzarsi. Adesso bisogna capire quali saranno le risposte delle istituzioni. I teatranti dovranno per forza re-inventarsi, per non morire. Dobbiamo farci nuove domande, senza dare vecchie risposte, stare dentro a questa contraddizione. È questo stare lì, nello spazio dell’inquietudine, che ci rende produttori di segni e di significati e capaci di inventarci di nuovo.