«La necessità di vivere all’interno, con un ritmo diverso, quasi antico, fatto di piccole cose, di tempi più dilatati, sta chiedendo al corpo di cambiare ritmo, anche biologicamente, di conformarsi a una dimensione che si rivolge più all’ascolto, quando non deve far fronte a stati di ansia o horror vacui che molto persone vivono». Così Adriana Borriello – coreografa, pedagoga e direttrice artistica del progetto DA.RE Dance Research – ha introdotto una riflessione sul corpo ai tempi della pandemia.
Partirei da uno dei suoi mantra: Chiedi al tuo corpo. Cosa risponde nello scenario che stiamo vivendo?
Il corpo chiede un’altra attenzione. Io parlando di corpo mi riferisco all’essere umano, alla manifestazione materica, tangibile, di un più ampio organismo che è la corporeità essere umano, che nel corpo risponde a tutto ciò che viene come sollecitazione esterna. Ho la sensazione che questa situazione stia portando il mondo, la vita col suo linguaggio, a riflettere su questioni fondamentali: sul dove stiamo andando, sul ruolo che diamo al corpo, al contatto, al nostro vivere, al rapporto con la natura, col desiderio, con l’esserci, col proiettarsi verso il fare, col rapporto fra l’azione e l’inazione, nel senso di riflessione. Spero che le nostre società siano mature sufficientemente per cogliere in senso positivo tutti questi insegnamenti che la vita ci sta portando. Oltre questo, credo che sia molto importante attraversare questo momento, attraversare l’assenza e le assenze che porta con sé, vivere le mancanze che possono rivelarsi delle non-mancanze, delle finte mancanze; in altri casi possono rivelare la loro importanza e quindi ci possono aiutare a riquadrare a cosa diamo valore e perché.
Il corpo parla sempre ma non tutti sono abituati ad ascoltarlo. Anche chi ha sempre lavorato sull’ascolto può aver incontrato delle difficoltà, soprattutto all’inizio di questo tempo sospeso, ad avviare una riflessione introspettiva.
È probabile che si viva questa situazione innanzitutto con ansia, panico, incertezza, paura, perché sono venuti meno i fondamenti di quella che era la modalità di vivere di tutti noi, io la chiamo modalità “frullatore”. Però il fatto è di essere messi obbligatoriamente di fronte all’ascolto del nostro corpo-essere, perché l’ansia è una questione fisica, si traduce nel corpo. Questa è stata ed è una cosa importante da attraversare, per quanto sgradevole o doloroso possa essere stato, anche per le persone meno avvezze ad ascoltare il proprio corpo, è un messaggio potente, magari molti solo in quella circostanza si sono resi conto di quanto fosse difficile sostenere una situazione di vuoto repentino. Penso che questo abbia portato delle riflessioni, consce o non consce, a seconda dello stato di coscienza che ognuno di noi ha. L’altro aspetto è che ho sentito di persone che hanno cominciato a fare un po’ di attività fisica, non potendo uscire e camminare, è nata la necessità, il corpo si è imposto in questa mancanza come elemento fondamentale, tutti stanno cercando di fare qualcosa di fisico, anche chi non l’ha mai fatto. E questo è un piccolo miracolo. Oppure il fatto di non essere in grado, in questa voragine del tempo, di riuscire a concentrarsi, molti hanno fatto fatica a trovare il modo per applicarsi, in questa condizione, su una pratica che gli era consueta. Tutte queste piccole memorie, queste tracce che rimarranno, saranno degli elementi fondamentali per elaborare questa esperienza, spero, ripeto, in termini positivi, non di ansia di recupero indiscriminata. Perciò sarà importante vedere che cosa resta proprio come memoria percettiva, memoria corporea, memoria dei piccoli gesti, delle questioni che ci stanno attraversando adesso.
La sottrazione di tante libertà, fra cui quella di muoversi, ha portato alla luce quanto sia fondamentale ascoltare il proprio corpo in movimento. Per i danzatori, per chi affronta quotidianamente diverse pratiche corporee, anche il disorientamento potrebbe essere dovuto a questo tempo altro che stiamo vivendo, quindi non riuscire a trasportare una pratica quotidiana nel momento in cui invece si ha a disposizione un arco temporale più ampio.
La cosa interessante in questo meccanismo, parlando per lo più dei danzatori o di chi è abituato a pratiche corporee, è il rendersi conto che l’isolamento e la solitudine richiedono un altro tipo di sforzo, un altro tipo di atteggiamento nel rapporto con te stesso e il tuo corpo, anche questo è un elemento di grande importanza per la conoscenza di sé, ovvero trovarsi a tu per tu con la propria capacità di autoregolarsi, di autocentrarsi, di autodisciplinarsi. È una questione importante, così come il rendersi conto che certe volte la mancanza di un contesto che ti supporta – vedi una lezione, un maestro, una congiunzione – ti fa capire quanto ci sia bisogno di lavorare anche sull’autonomia, sulla capacità di essere maestri di se stessi, di non delegare sempre e solo agli altri e al contesto il ruolo di stimolatore. Sono questioni che necessitano una grande riflessione, perché possono rappresentare un momento di crescita significativa, per chi è capace di attraversale. Poi c’è la moltitudine e la molteplicità delle risposte che sarà, magari qualcuno scoprirà che non è più motivato, che quello che sta perseguendo non è quello che vuole in fondo.
Finito lo stato di emergenza, come immagina la proposta artistica del futuro? È stato anche un tempo per riflettere, per far germogliare temi diversi dal pre-lockdown, sul rapporto fra i corpi ad esempio. Secondo lei come si muoverà la ricerca?
Devo fare una piccola premessa: credo che l’uscita dall’emergenza sarà una lunga transizione che continuerà ad operare il suo potere trasformativo, noi saremo tutti molto trasformati alla fine di questo cammino che, a mio avviso, sarà ancora molto lungo. Dunque è difficile fare una previsione, perché è difficile prevedere cosa saremo domani, tutti quanti noi. Ciò detto, sto riflettendo molto su cosa significhi questo momento e quello che potrebbe portare come trasformazioni o cosa ognuno di noi potrebbe fare, che posizione potrebbe prendere per contribuire a una geografia del dopo. La cosa abbastanza singolare che ci appartiene è proprio il fatto che dovremo gestire e rinegoziare continuamente la questione della promiscuità, della vicinanza, del contatto. Per cui, già semplicemente sulla produzione artistica, uno si chiede: ma faremo tutti assoli? Oppure: come si gestirà la questione della distanza, del rapporto col pubblico, del rapporto tra il pubblico? D’altro canto, credo anche che tutto quello che stiamo vivendo potrebbe far sentire – forse lo sta già facendo – la mancanza di attività che si rivolgono e nutrono lo spirito, tra cui l’arte. Dunque, la grande domanda che mi faccio è: quando si comincerà a riprendere prevarrà la paura della mancanza di sicurezza economica, per cui nessuno andrà più a teatro, oppure la necessità di dare un valore al nutrimento di quella parte dell’essere? Questa è la prima grande domanda alla quale non so dare una risposta, perché quello che credo è che ognuno di noi è portato ad attribuire agli altri quella che è la propria posizione nel mondo. Dal mio punto di vista ci potrebbe essere un maggiore desiderio, in altre forme probabilmente, che daranno un grande valore alla comunicazione più empatica, eterica, meno a quella che attiene al contatto materico. Io spero che l’arte dal vivo non venga soppiantata o tradotta in surrogati non dal vivo. In questo, per esempio, per il momento ho preso una posizione molto chiara, cioè tutto ciò che è attività di presenza, nonostante mi sia stato chiesto di fare lezioni online, io non ho voluto farlo. Quello che ho proposto, per esempio sul Tai Chi, è di condividere dei momenti, di avere delle pratiche a certi orari e in certi giorni, contemporaneamente ma da lontano. Poi eventualmente parlarne e fare domande, avere un confronto verbale per mantenere un altro tipo di contatto. Così come sto elaborando – se la cosa andrà avanti a lungo – la possibilità di proporre agli allievi di DA.RE dei temi di lavoro da sviluppare individualmente, ovvero altre forme di condivisione che possono anche utilizzare la tecnologia, ma non per produrre e proporre surrogati di quello che è l’arte dal vivo e il lavoro corporeo e in presenza, che è tutta un’altra cosa secondo me.
Con un tipo di interfaccia del genere si può avere il sentore di guardarsi, attraverso uno schermo, ma in realtà non è così.
Scappatoie o surrogati appunto, diventa un’illusione. Io mi illudo che sto facendo la stessa cosa che facevo dal vivo ma non lo è e in qualche modo mi sto mentendo, cioè sto alimentando una menzogna che il mio corpo sente. Gli allievi di DA.RE stanno facendo degli sharing per avere un contatto umano, un confronto rispetto a ciò che si sta vivendo in solitudine, ovvero la mancanza dello sharing dal vivo. In questo senso, se questo è il risultato, allora ben venga, almeno che ne facciano esperienza. Ma se questo sostituirà, diventerà un altro business, un altro lavoro, un fare dei corsi più economici perché non bisogna prendere uno spazio e spostarsi per andare fino allo studio dove c’è la tale lezione, questo è molto pericoloso.
Parliamo delle dinamiche processuali o pedagogiche: possiamo immaginare un coreografo che non ha contatti con i suoi danzatori o un regista con i suoi attori?
Quello è un aspetto su cui sto riflettendo, sono ancora in gestazione. Però già prima, per necessità, avevo messo in atto delle modalità processuali che prevedevano la condivisione di temi di lavoro avviate dal vivo, sviluppate in solitudine per poi ritrovarsi. Può darsi che ci possa essere in qualche maniera un approfondimento, per quanto mi riguarda, di metodologie che vadano in questa direzione.
Parliamo della situazione dei lavoratori del settore.
Io stessa sono in stato di allerta. Con DA.RE abbiamo subìto le stesse situazioni di tutti, da un giorno all’altro sono stati sospesi tutti i lavori, progetti in atto con domanda ministeriale fatta. La situazione è grave e io spero che questa sia un’occasione per far emergere – così come sta emergendo il fatto che tutti i tagli alla sanità sono stati inopportuni – delle situazioni incancrenite, di consuetudini tacite e non ortodosse, che comunque avvenivano, avvengono e continueranno ad avvenire probabilmente, nei nostri statuti dei lavoratori inesistenti. È importante cogliere il momento in cui politicamente le attenzioni dei governanti non sono più poste innanzitutto sulle diatribe tra di loro.
Avanzerebbe qualche proposta che il Ministero potrebbe attuare per una maggiore tutela?
Diciamo che non è proprio una proposta, ci sono degli auspici. Io spero che il Ministero, rendendosi conto di questa situazione, permetta l’erogazione dei contributi e di una serie di revisioni delle norme, come non tener conto dei parametri quantitativi. È il momento di cogliere e fare rete, per rivedere tutto quanto. Mi sembra che siamo in una situazione che, da tutti i punti di vista, sta portando a una sorta di azzeramento, di ground zero. E forse vale la pena – siamo pure nel periodo di Pasqua – di operare una riconsiderazione e una rinascita effettiva, di tutto. Anche i disastri che ha operato questo tempo, li possiamo utilizzare per una rinascita, per ricominciare a mettere in ordine le cose, come sta facendo ognuno di noi nella propria casa. Perché non farlo anche a livello sociale e culturale?
Per me andare a teatro è rivolgermi dove sento che c’è qualcuno che si è posto la questione di approfondire delle riflessioni, di elaborarle e di portarle alla condivisione. È quello il teatro che ho voglia di vedere e forse, se quel teatro è possibile, lo è solo se si ripensa il concetto di produzione e i meccanismi che gestiscono e sottendono alla produzione. Per fare un esempio: se nel sistema Italia chi produce ed è sostenuto dallo Stato è obbligato a produrre ogni anno qualcosa, più tutto il resto delle attività, siamo sicuri che risponda a un desiderio reale, a una progettualità radicata visceralmente nell’artista? O è semplicemente una questione di mercato? Io ho fatto delle scelte in tal senso, ho sentito che mi stavo prendendo in giro, che per rispondere ai requisiti andavo contro il mio ritmo artistico e il mio status, dovevo scendere a compromessi continuamente. Quindi forse bisognerebbe pensare diversamente il sostegno e il rispetto dei ritmi creativi che ogni artista può sostenere. Il punto è proprio quello. Il Ministero non finanzia il progetto, in realtà finanzia un’attività aziendale, cioè chiedono di diventare azienda. Non esiste una sovvenzione a progetto come esiste in tanti altri Paesi e io questo l’ho sempre rilevato.
Ultima domanda: la paura. C’è il rischio che la fobia dell’altro rimanga?
Il futuro non si sa, il bello del futuro è quello. Ci saranno delle risposte personali e individuali che non si possono ponderare. Penso che col tempo saremo tutti trasformati, non possiamo prevedere questa trasformazione dove ci condurrà ed è giusto così perché altrimenti non sarebbe trasformazione. Sono fiduciosa anche perché credo che le cose alla fine se le attraversi, le vivi, le interroghi, le accogli, ti forniscono le risposte necessarie a quello che ti domandano. Per cui penso che l’unica strategia possibile sia effettivamente porsi in stato di ascolto e di accoglienza delle cose, avendo la pazienza di far sì che quello che accade possa operare su di te, quindi mi vengono in mente queste parole: fiducia, pazienza, accoglienza e attesa attiva.
Fiducia, pazienza, accoglienza, attesa attiva, sono dinamiche presenti e essenziali della danza. La danza può aver già suggerito qualcosa in passato e magari può traghettarci verso il futuro.
La danza per me è metafora della vita, cioè l’arte del movimento, ogni forma di esistenza è movimento. Filosoficamente è l’arte che più di tutte incarna la vita e la celebra. Movimento fine a se stesso. Celebra quello che è il senso ultimo dell’esistenza.
Ph. Fabio Melotti
Grande comunione di esperienze e capacità di mettere insieme percorso artistici e di vita , necessari ad una comunità nuova , esperta e affettuosa che sa . Comprendere e scriverne è gesto politico necessario, perché di questo ha bisogno il futuro
[…] arti performative contemporanee ideato e diretto da Adriana Borriello a Roma (per approfondire, qui un’intervista alla coreografa). Il programma triennale di perfezionamento formativo e di ricerca inaugurato dalla coreografa nel […]