Ospite del terzo incontro del ciclo “L’attore tra teatro, cinema e new media”, promosso dal progetto Per un teatro necessario, a cura del SARAS (Dipartimento di Storia Antropologia Religioni Arte Spettacolo) de l’Università La Sapienza, è Alessandro Serra, premio Ubu 2017 con il suo ormai celebre Macbettu. Il regista torna tra i banchi dove si è diplomato in Arti e scienze dello spettacolo con una tesi dal titolo La drammaturgia dell’immagine, frutto di studio e ricerca, ma soprattutto di esperienza personale.
Serra comincia gli studi universitari in Antropologia, si avvicina alla fotografia e al cinema, spinto sin da bambino da una forte pulsione artistica, ma saranno due incontri fondamentali a definire la sua vocazione teatrale. «Il primo – racconta – sulla carta. Con La canoa di carta, appunto, di Eugenio Barba, che è stato una sorta di viatico, come se questa piccola canoa mi avesse accompagnato alla sorgente, a Grotowski». Il secondo incontro è quello con il teatro di Leo De Berardinis. «Sono rimasto folgorato dalla visione, non pensavo si potesse fare teatro in quel modo. Restai anche all’incontro con gli attori, però dovevo tornare a Civitavecchia, dove abitavo, e non avendo realizzato che non c’erano più treni ho dormito alla stazione e ho avuto tutta la notte per pensare che quella, forse, poteva essere la mia professione, nel senso profondo del termine, di esecrare professionalmente questo mondo». Parte dunque il percorso teatrale, studiando inizialmente come attore. «Mi sono autoinflitto una formazione grotowskiana, partendo dal Terzo Teatro, ma soprattutto andando verso la sorgente. Mi sono imposto un training rigorosissimo, qualcosa che in realtà va contro la mia natura, che è assolutamente animale. Forse, paradossalmente, mi è stato più utile fare qualcosa di completamente diverso, che per molti anni mi ha portato lontano da Dioniso e a braccetto con Apollo. Ma penso che sia stato utile perché adesso, come è inevitabile, le due cose coincidono. Non ci sono Apollo o Dioniso, sono la stessa cosa, devono essere necessariamente uniti».
La messa in scena di uno spettacolo per Alessandro Serra non si riduce mai alla semplice regia, ma prevede una profonda dedizione e un grande lavoro di ricerca. «Ogni volta che faccio uno spettacolo cerco di fare un capolavoro, penso sempre che sia l’ultimo della mia vita. Ogni spettacolo, per me, dovrebbe essere così, per questo mi ci vuole tempo e per questo il nostro sistema funziona male», racconta riferendosi alla bulimia di produzioni nel sistema teatrale italiano, dove «tutti producono, ma nulla di esemplare, niente che resti».
Che si tratti di spettacoli per adulti, per l’infanzia o di lavori con corporeità diverse, come quello fatto con la compagnia dell’Accademia Arte della Diversità/Teatro La Ribalta di Antonio Viganò, «non si tratta di mettere in scena un testo, ma di espiantarne l’aura». Ecco, dunque, che veniamo al nodo della questione drammaturgica, che per Serra significa sempre scrittura di scena. «La drammaturgia è soprattutto riscrivere in scena qualcosa che è già esistito e che continuerà a esistere. Lo ha detto Peter Brook prima e molto meglio di me: non c’è niente di interessante nel testo. Esso è un pretesto per poter scovare l’immagine che vi sta dietro, ed è quest’immagine che va posta di fronte agli occhi degli spettatori, perché è con quella che possiamo davvero mettere lo spettatore di fronte al proprio mistero».
Gli spettacoli di Alessandro Serra, dunque, combinano magistralmente due aspetti apparentemente stridenti: da un lato un rigoroso lavoro sulle immagini, «un teatro di composizione – come lo definisce il professor Guido Di Palma, moderatore dell’incontro – e un teatro che potremmo chiamare dell’esperienza, perché si basa sui corpi viventi degli attori». A proposito del suo lavoro con gli interpreti, il regista si esprime dicendo che «la bellezza va ricostruita, in modo artigianale e anche noioso, e poi va animata dall’attore. Sono fasi che devono essere attraversate e a volte capita di andare in scena quando le due cose sono ancora staccate, per cui l’attore sente di non avere dimestichezza. E allora questo è il mio lavoro, ricostruire tutto finché arrivo alla sostanza, perché il teatro, ahimè, è l’attore, e tutto il resto è apparato. Quando arrivo alla sostanza, anche lì devo intervenire sulla forma, su come fare a veicolare quell’emozione attraverso il corpo, la voce, la postura». Il regista non deve entrare nell’intimo dell’emozione, la comunicazione con l’attore avviene sempre attraverso la forma. La tecnica, fondamentale, «serve a edificare e a esporre la ferita, perché se questa ferita non c’è, non posso, come spettatore, vedere la mia. In questo senso non si parla di comunità ma di comunione».
I periodi di prove di Serra sono molto lunghi, a partire da un lavoro fisico intenso, un training rigoroso, per poi arrivare al testo «sudati», senza fare mai letture a tavolino. Smentendo le voci sulla propria severità, il regista parla delle sue prove dove, «in quanto veri processi di creazione, l’attore è stimolato talmente tanto che è anche divertente, poi arriva una fase in cui è un po’ faticoso, però resta molto divertente».
Un insegnamento importante, parlando ancora del lavoro con l’attore, arriva dall’esperienza di H+G, spettacolo realizzato con i «corpi poetici» della compagnia bolzanina di Antonio Viganò. Se da un lato quest’ultimo ha insegnato a Serra la differenza tra usare e sfruttare i segni delle proprie biografie, la vera lezione arriva dagli stessi attori: «Queste persone, se sono veramente disabili in qualcosa, è nell’ego: non lo possiedono, non c’è mai compiacimento in quello che fanno. Quello che ho imparato da loro è la disabilità dell’io, che dovrebbero imparare anche i miei attori e anche io stesso».
Alla domanda ormai rituale in questi incontri, «che cosa è per te il teatro?», Alessandro Serra torna ancora una volta alla sua sorgente, citando Grotowski quando asserisce che la creatività è una condanna. Ma se da un lato c’è l’ossessione «qualcosa di patologico, che bisogna assolutamente spazzare via, dall’altra, grazie al teatro ho imparato e imparo tutti i giorni ad assaporare la vita, ma soprattutto a osservarla. Non mi sfugge più il transitorio e ho più facilità a fermarmi sull’essenziale della vita. Questo per me è il teatro. Per cui, quando metto in scena un’opera come Il giardino dei ciliegi, che è vita vera distillata, in qualche modo ho il privilegio di imparare a vivere».