Compagnia Fort Apache Cinema Teatro

Riflessioni sul teatro in quarantena. Intervista a Valentina Esposito

Le necessarie misure restrittive, attuate nelle ultime settimane per tentare di contrastare l’epidemia di COVID-19, hanno costituito per il mondo dello spettacolo dal vivo quella che può essere cautamente definita una catastrofe. Tra eventi annullati a ridosso della celebrazione, o al limite rimandati di almeno sei mesi, teatri chiusi con intere compagnie bloccate, e l’esclusione dei lavoratori dello spettacolo dal bonus INPS di 600 euro, l’epidemia ha riportato a galla, per l’ennesima volta, i tanti problemi che affliggono il sistema teatrale italiano, e in special modo i suoi i comparti più deboli, che troppo spesso sono costretti a fare i conti, nei momenti di maggiore difficoltà, con la mancanza di un effettivo sostegno alla loro sopravvivenza.

Proprio perché quella che stiamo vivendo è tra le crisi internazionali più gravi degli ultimi cento anni, e proprio perché sta colpendo indiscriminatamente la maggior parte delle attività umane, può costituire il punto di partenza per nuove visioni del futuro, a cui, nel nostro piccolo, vogliamo partecipare stimolando una riflessione sul sistema teatrale italiano, e sui vettori di un possibile, e quanto mai auspicabile, cambiamento.

Cominciamo a farlo insieme all’autrice e regista Valentina Esposito, creatrice e direttrice della compagnia teatrale Fort Apache Cinema Teatro, un progetto che coinvolge, accanto ad attori professionisti, attori ex detenuti o detenuti in semilibertà che hanno intrapreso un percorso di professionalizzazione e inserimento nel sistema dello spettacolo. Oltre all’impegno teatrale, Valentina Esposito è docente del Dipartimento di Storia Antropologia Religioni Arte Spettacolo dell’Università La Sapienza di Roma, dove insegna Teorie e tecniche del teatro sociale nel corso di laurea triennale in Arte e scienze dello spettacolo e Teatro e Carcere, all’interno del Master di specializzazione in Teatro nel sociale.

Lei lavora in un contesto carcerario, dove il teatro è connesso alla riabilitazione. Come state gestendo l’emergenza COVID-19? Come si struttura il lavoro quando l’educatore non è presente, e non può condividere il medesimo spazio con l’allievo? Come state svolgendo il vostro rapporto a distanza?

L’emergenza COVID-19 ha riportato all’attenzione le criticità che affliggono da tempo il sistema penitenziario italiano, le drammatiche questioni inerenti il sovraffollamento, la carenza di un’adeguata assistenza sanitaria. Le carceri sono in rivolta, e anche là dove ancora la tensione non si è fatta protesta, il contagio e la paura del contagio rendono complicata la gestione dei conflitti e del contesto. Si attende un intervento istituzionale che tarda ad arrivare. Naturalmente ogni tipo di attività è sospesa e non è possibile avere contatti con i reclusi se non attraverso il web. Le porte sono chiuse sine die, per un tempo indeterminato senza forma né direzione così incredibilmente simile a quello della pena. Situazioni di questo genere fanno terra bruciata dei risultati conseguiti nel passato. Non sarà semplice tornare. Dentro come fuori, nel lavoro con gli attori ex detenuti, è la continuità dell’intervento a rendere il teatro un’esortazione permanente capace di contrastare il rischio di ricaduta e recidiva. In questo senso il lavoro è profondamente compromesso, è molto difficile restare ancorati alle nuove prospettive di senso create faticosamente dall’attività teatrale quando tutto intorno ti riporta indietro. Solo dieci anni fa portammo in scena a Rebibbia un lavoro ispirato tra gli altri anche a Saramago, uno spettacolo nel quale il racconto visionario dell’epidemia di cecità si innestava sulla condizione di detenzione. Alle parole di oggi – regole, restrizioni, distanziamento sociale – gli attori ex detenuti conferiscono un senso legato al passato, torna con prepotenza alla memoria la condizione degli arresti domiciliari, della reclusione, della solitudine, dell’isolamento, del tempo sospeso…  Anche dal punto di vista economico diventa ancora più complicato continuare a sostenere queste persone attraverso quella che dovrebbe essere la loro seconda opportunità lavorativa, un’alternativa concreta ai contesti criminali. È una situazione preoccupante, una questione di responsabilità di carattere anche sociale, che necessita di soluzioni immediate. Eppure la marginalità della nostra esperienza, la sua alterità rispetto al sistema e ai circuiti ufficiali, le difficoltà che affrontiamo anche in periodi di pienezza, l’abitudine alla disillusione, non rende questo tempo così diverso da quello che abbiamo vissuto e continueremo a vivere nel futuro.

Era il 1969 quando Peter Brook diceva «Posso usare qualsiasi spazio vuoto e chiamarlo teatro». Se collocata nel suo tempo, questa frase raccontava dell’esuberanza teatrale di quegli anni che non riconosceva più i luoghi tradizionali del teatro, quelle sale fatte di poltrone in velluto rosso e decorazioni ottocentesche, e il desiderio di raggiungere e invadere le strade, le piazze, tutti quei luoghi dove qualcosa accadeva, perché il teatro poteva farsi ovunque. Bastava che lo sguardo di uno spettatore incontrasse il corpo di un attore. Se collocata in questo tempo, può spiegare questa ricerca spasmodica dello spettacolo in streaming? Oppure si dimentica la natura dell’evento dal vivo, e lo si mette a confronto con forme spettacolari mediate, dimenticandosi che il teatro, come la danza e la performance vivono dell’istante dell’incontro reale, della compresenza in carne ed ossa di attore e spettatore, dell’hic et nunc. Qual è dunque la sua posizione al riguardo? Può il teatro continuare a svolgere il suo ruolo anche online?

Nell’ambito del Teatro in Carcere, lo streaming è stato spesso utilizzato come uno strumento di apertura alla società esterna, una prassi alternativa di presentazione al grande pubblico degli esiti teatrali realizzati all’interno. Mi riferisco ad esempio al lavoro di alcuni gruppi formati da attori detenuti delle Sezioni di Alta Sicurezza che non possono beneficiare di permessi e articoli di legge che diano loro l’opportunità di uscire, anche episodicamente, dagli Istituti e portare gli spettacoli sui palcoscenici liberi esterni. In questi casi, evidentemente, la mediazione del web, soprattutto nella modalità della diretta in streaming, anela a diventare quasi un’azione di rottura, di scavalcamento dei muri istituzionali che dividono il dentro e il fuori, un’azione che si vorrebbe caricare della stessa intenzione politica che connota le azioni di teatro tout court all’interno delle carceri, ma che si veste di senso solo e soltanto perché esiste quel limite da oltrepassare, altrimenti lontana dall’evento teatro, una sua declinazione impoverita, una forma vuota. Il lavoro dell’attore sociale è sempre dedicato, è sempre per qualcuno, senza lo sguardo dello spettatore non c’è processo trasformativo. Non c’è teatro senza un altro in presenza, attore o spettatore che sia. Integrare la mediazione video come parte del processo produttivo porterebbe a una reificazione del teatro, consegnato in copia alle piattaforme, al consumo privato, alla soluzione economica, alla vita in morte, alla competizione impari con i mezzi e i prodotti televisivi o cinematografici. Questi spettacoli non arriverebbero mai al grande pubblico, resterebbero interesse degli addetti ai lavori, un mezzo di archiviazione digitale di esiti del passato, di conservazione della memoria. Evidentemente il teatro ai tempi della pandemia è posto di fronte a muri ancora più alti da oltrepassare, a limitazioni ancora più stringenti, le restrizioni non compromettono solo la relazione fra attore e spettatore ma fra gli attori stessi. Nello specifico della nostra esperienza in particolare, è molto difficile immaginare un approccio non relazionale e non collettivo. Non è possibile pensare il nostro lavoro se non in forma comunitaria… Lo spazio del sogno e dell’immaginazione non è uno spazio individuale dell’artista, lo spazio vuoto che noi chiamiamo teatro è quello della produzione immaginifica condivisa. Dunque, prima ancora di cercare modalità alternative per incontrare lo spettatore, l’urgenza è quella di ricreare la comunità teatrale e la sua capacità creativa. Virginia Woolf scriveva che il tempo della malattia è anche quello della diserzione e della sconsideratezza e che questo è proprio quel che ci serve – «fuorilegge che siamo» per leggere Shakespeare. Forse questo tempo è un nuovo spazio vuoto, un dono per rileggere con altri occhi il nostro lavoro.

Secondo l’AGI nella sola prima di settimana di lockdown il coronavirus ha fatto saltare 7.400 spettacoli e perdere 10,1 milioni di euro. Quali sarebbero secondo lei le azioni da fare nel momento della ripresa per migliorare il sistema? Dove e in che modo si potrebbe agire?

Il danno al sistema teatrale è stato un danno necessario, conseguente ad una situazione emergenziale che ha compromesso tutti i settori. In questo momento siamo faticosamente impegnati a riorganizzare programmi, recuperare risorse, tenere in piedi i progetti e le strutture, trovare vie alternative alle solite prassi. Convertire questa crisi in un terreno fecondo per un miglioramento effettivo del sistema sarà il risultato di un lungo lavoro di piccole azioni e soluzioni quotidiane ai problemi di ogni giorno.

Nella futura riorganizzazione del teatro, alla luce di ciò che è accaduto in questa fase di lockdown, crede sia necessario dare testimonianza di ciò che è avvenuto? È possibile che ne esca un nuovo teatro italiano? Come pensa che lo accoglierebbero gli attori? E gli spettatori?

Le pratiche di teatro sociale sono da sempre pratiche di testimonianza, legate alle istanze del presente e alle urgenze degli attori coinvolti. Questa pandemia contagerà i testi che stiamo scrivendo e gli spettacoli che stiamo immaginando nelle stesse modalità che quotidianamente orientano il lavoro con i gruppi. Stare nella ferita, narrare questo tempo, darne testimonianza è e deve essere una necessità condivisa che certamente invaderà anche i palcoscenici tradizionali, scardinando forse certi meccanismi autoreferenziali del teatro, assottigliando le distanze con le esperienze artistiche di carattere sociale, nei contenuti e forse anche nelle modalità di realizzazione. Le sale sono chiuse, e questo è un danno soprattutto per le produzioni dei circuiti ufficiali, che hanno tempi di prove sempre più brevi e occupano invece gli spazi della rappresentazione per intere stagioni. Lo è stato in forma diversa per le esperienze di teatro sociale, in cui le fasi di creazione degli esiti durano mesi, avvengono in spazi extra teatrali e approdano sui palcoscenici solo alla fine di un lungo percorso di ricerca e formazione in occasione di eventi che spesso purtroppo restano episodici; esperienze che non godono del lusso di replicare il lavoro ma del privilegio di prendersi il tempo che è necessario per attuare e ripensare il processo. Questa emergenza, la malattia – e torno a Virginia Woolf che mi accompagna in questi mesi – ha fermato «l’esercito degli eretti che marcia in battaglia», ci ha resi tutti disertori, «capaci, forse per la prima volta dopo anni di guardare in alto, di guardare intorno – di guardare, ad esempio, il cielo». E forse per tutti, per gli attori e per gli spettatori, sarà un arricchimento.

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