A Palermo il sole è, più che mai, dispettoso nel mostrare scintillante la città, vuota nella sua bellezza esagerata, contaminata di per sé. A voler immaginare una passeggiata, si potrebbe dimenticare che da oltre 50 giorni siamo chiusi in casa. Ma passeggiare liberi dai pensieri, dalla paura del contatto umano e anche dei posti di blocco, è ancora un privilegio della sola immaginazione.
Siamo alla fine della fase 1, che lascerà spazio ad una ancora poco definita fase 2 a cui seguiranno chissà quante altre fasi. L’emergenza-contagi da coronavirus cede il passo alle numerose e diverse domande che ciascuno si pone in relazione al proprio personalissimo futuro, ma si spera che gli interrogativi riguardino anche l’idea di un futuro collettivo. Tra non molto riapriranno i primi cantieri e una serie di fabbriche e attività, per il momento si può andare in libreria, si può comprare il giornale, o le sigarette. Circa il futuro del teatro quasi nulla si sa, e quello che si sente si spera non sia definitivo, dal momento che non è così rincuorante. Abbiamo chiesto di riflettere con noi a Luca Mazzone, direttore artistico del Teatro Libero di Palermo, Centro di Produzione Teatrale e realtà dotata di uno sguardo curioso, tra le più attente, nel Sud Italia, ai nuovi scenari nazionali ed internazionali.
Cosa vuol dire per il Teatro Libero restare chiuso?
In questo momento siamo in attesa, come tutti. Nelle prime settimane, quando il lockdown era previsto per 15-20 giorni, abbiamo lavorato per riprogrammare, poi, con il passare dei giorni, avendo avuto il sentore delle incertezze e della provvisorietà di ogni programmazione, ci siamo fermati, rimanendo appunto in attesa, un’attesa che speriamo non diventi una condizione perenne. Il teatro è il luogo della vita, dell’incontro, dello scambio, della fatica; un teatro non può rimanere chiuso.
Tra meno di un mese si sarebbe tenuta la quindicesima edizione del festival internazionale Presente Futuro. Cosa comporta l’annullamento di questo importante appuntamento?
Inizialmente avevamo proseguito il lavoro, studiando e leggendo le oltre 150 proposte inviateci a seguito della nostra call internazionale. Avevamo iniziato a fare una selezione, preso i contatti con le compagnie; ma, a fine marzo, quando era ormai certo che la chiusura sarebbe andata ben oltre il 3 aprile, abbiamo fermato tutto. Per un momento abbiamo pensato di spostare le date, immaginando il festival a metà settembre, ma le notizie sono ancora troppo incerte, e per programmare un festival ci vuole tempo, ci vogliono delle garanzie per le compagnie e mi pare che non ci siano le condizioni. Attendiamo ancora qualche giorno, ma penso sia più serio cancellare l’edizione di quest’anno.
Avete valutato, sulla scia di altri festival, l’ipotesi di una versione digitale di Presente Futuro?
Apprezzo moltissimo questa capacità di resilienza, ma sono anche molto concreto e penso che queste soluzioni siano molto più utili alla visibilità del festival che agli artisti. A me non interessa che Presente Futuro si faccia online, credo, anzi, che abbia una forza e una credibilità proprio perché ha consentito, soprattutto nelle ultime edizioni, ad artisti assolutamente sconosciuti di viaggiare e di incontrare altre realtà, di essere programmati in un festival internazionale, dando loro possibilità concrete. Chiunque oggi può vedere video, il linguaggio del digitale è uno strumento utile, ma le compagnie possono autonomamente aprire i propri archivi digitali, perché dovrei fare io un festival digitale? Mi pare riduttivo, vorrebbe dire snaturare il lavoro di questi artisti. E faremmo loro un torto: noi non selezioniamo spettacoli compiuti, ma ci muoviamo nel solco del sostegno alla mobilità e alla creazione, attraverso un piccolo sostegno produttivo e stimolando progetti di residenza. Non voglio sminuire né criticare gli altri ma, dal momento che non ci sono le condizioni per l’incontro tra persone – questo è per noi il festival – preferisco sospendere Presente Futuro per quest’anno e lavorare perché il prossimo anno si possa fare un festival che ne valga due.
Cosa pensa della possibilità di fare il teatro in streaming?
È difficile da dire. Quando qualcuno, dopo il primo giorno, ha subito attivato progetti in streaming l’ho trovato di cattivo gusto. Il tema non era e non doveva essere la visibilità quanto piuttosto immaginare forme di tutele e sostegno per l’intero comparto, che forse dovrebbero attivare un pensiero comune e di rete che accenda un dialogo tra realtà diverse. Il tema non doveva essere: siamo comunque presenti, bensì come immaginiamo il presente in una condizione di quarantena che rischia di spazzare via segmenti importanti del nostro settore e, allo stesso tempo, che ci impedisce di incontrarci, di vivere la condivisione fisica del qui e ora, costitutiva del teatro. Lo streaming è uno strumento che divide, non unisce. Le grandi istituzioni hanno risorse da investire, lo stanno facendo, lo hanno fatto. Le strutture piccole e medie, le compagnie, i singoli artisti no, e vengono così penalizzate. Credo che vadano date pari opportunità, sarebbe opportuno che nel settore si facesse un discorso etico e ci si muovesse creando delle piattaforme comuni utili alla digitalizzazione. In tutta franchezza, non ha senso parlare di teatro in streaming, il teatro è tutt’altra cosa. Il teatro è presenza. Lo streaming è televisione, ovvero un altro linguaggio. E a me non interessa fare televisione. Con Teatro Libero abbiamo pensato di fare altro, raccontare un’assenza, una mancanza, confrontandoci e dialogando con attori, registi, personalità del mondo della Cultura. Confrontarsi per comprendere che cosa sta accadendo e che cosa accadrà. E poi abbiamo deciso di lavorare sulla memoria, rendendo fruibili pezzi del nostro archivio di oltre cinquant’anni di teatro. Stiamo valutando un corposo lavoro di digitalizzazione del nostro archivio: produzioni, progetti di formazione, importanti presenze della scena contemporanea del secondo Novecento, da Jerzy Grotowski, a Eugenio Barba, da Jerzy Sthur, Andrej Wajda, Anatolij Vasil’ev, alla danza di Maguy Marin, Angelique Preljocaj per citarne alcuni. E tante giovani compagnie che hanno poi costruito una loro importante identità artistica.
Avete appena inaugurato uno spazio di riflessione online sulle possibilità di fruizione e produzione culturale post virus: #Cosasarà. Ecco, cosa sarà? Come immagina il futuro del teatro?
Non riesco a immaginare cosa sarà, ci provo. In questo momento, osservo e ascolto; vedo emergere tutte le fragilità del nostro settore in modo violento. In molti discorsi istituzionali e governativi ho visto grande timidezza, per non dire assoluta, nel citare il Teatro, gli artisti. Parrebbe che nessuno si preoccupi di immaginare quando e come riaprire i teatri, le sale da concerto. Certo, non è pensabile riaprire con condizioni di sicurezza restrittive. I costi di gestione di riaperture siffatte non sono sostenibili, se non forse soltanto per alcune realtà istituzionali ben finanziate che agiscono in spazi molto grandi. Tutto il resto del teatro non ha le risorse per sanificare quotidianamente, per modifiche strutturali; per gli spazi medio-piccoli significherebbe aprire in perdita, aprire per chiudere. Credo che sarebbe più corretto fare un discorso di sistema, coinvolgendo tutti i soggetti del settore, lo Stato, le Regioni, i Comuni, immaginando strategie di rilancio che non lascino nessuno indietro.
Avete stimolato la riflessione sui social, proponendo un glossario. Da quale parola si potrebbe ripartire, una volta finita l’emergenza?
Necessario. Credo che sia la parola fondamentale. Quando cerco di immaginare le programmazioni, le produzioni, le relazioni, parto da ciò che ritengo necessario. Sarebbe bene che l’idea di necessario ci coinvolgesse tutti: ripartire dalla necessità di dire qualcosa e trovare il linguaggio più adatto per ciò che si vuole dire. Ho però l’impressione che negli ultimi anni si sia preferito porre l’attenzione dare credito più alle mode che alle necessità. In una situazione come questa, dobbiamo ripartire dalla nostra funzione pubblica, che penso sia quanto mai necessaria nella società contemporanea post covid-19.
Il Teatro Libero è un luogo dove si incontrano esperienze di compagnie non solo italiane, ma provenienti in gran numero dall’estero. Se gli spostamenti internazionali dovessero essere limitati a lungo, questo minerebbe l’identità stessa della vostra stagione. Come pensate di muovervi nell’ipotesi di dover organizzare una programmazione dovendo rinunciare a un aspetto così importante delle vostre stagioni?
Questo è un problema che mi sono posto, dal momento che la possibilità di programmare una stagione internazionale è in qualche modo parte del nostro DNA. Io non credo che si possa bloccare la mobilità troppo a lungo, credo certamente che sarà difficile nella stagione 2020-2021. Però, possiamo lavorare su uno degli aspetti della nostra identità: la drammaturgia contemporanea internazionale, che ci consente di dialogare e conoscere esperienze altre anche rimanendo fermi nei nostri luoghi, nei nostri spazi, nelle nostre città. Intensificheremo i progetti di traduzione di drammaturgie provenienti dal resto del mondo, e promuoveremo la nostra drammaturgia all’estero.
Come, secondo lei, dovrebbe intervenire lo Stato per agevolare una ripresa e limitare al minimo i danni per il sistema teatrale?
Si stanno moltiplicando le iniziative di confronto, gli appelli, le chiamate da parte dei lavoratori dello spettacolo che cercano di stimolare una certa “coscienza di classe”. Cosa pensa di questo slancio di categoria?
È importante prendere coscienza della propria condizione, ma il problema è che bisognerebbe averla sempre, non solo in certi momenti. Io vorrei che ci fosse una coscienza costante, non a giorni alterni. È importante avere consapevolezza del quadro complessivo della situazione. Dunque, tutte queste iniziative sono positive, ma è importante che vengano incanalate verso obiettivi condivisi ed efficaci, evitando contrapposizioni spicciole, ma lavorando a un ripensamento complessivo del sistema dello Spettacolo dal Vivo, che rimetta al centro il lavoro.