Il mostro letterario della peste è tornato inevitabilmente di moda.
La risposta tempestiva del Teatro Pubblico Ligure, esattamente all’indomani della chiusura dei teatri e di ogni attività culturale, è stata Racconti in tempi di peste, una sfida e un modo per sentirsi parte tutti di un unico racconto.
Una variazione di questa iniziativa è costituita da incontri in diretta, Dialoghi (anche quelli, chiaramente) in tempo di peste. Questa quarantena ha visto nascere moltissime di queste iniziative: organizzatori, produttori, critici, attori, registi, tutti immersi nell’importante riflessione a cui il virus ci ha costretti.
Nella serata del 29 aprile, Sergio Maifredi e l’attore e regista Corrado d’Elia hanno ospitato in diretta Facebook sulla pagina che porta il nome dell’iniziativa, insieme al giornalista e critico teatrale Andrea Porcheddu, l’Odin Teatret con Eugenio Barba e Julia Varley. La prima cosa che salta all’occhio, a cui drammaticamente non siamo più abituati, è che questi ultimi sono seduti spalla a spalla. Si toccano.
«Questa situazione mi riempie di stupore», dice subito Barba. «È una situazione che non ho mai vissuto. Abbiamo tutto quello per cui sempre diciamo di non avere il tempo. Apparentemente tutto è fermo, ma qualcosa lavora dentro di noi».
Gli artisti dell’Odin Teatret hanno fatto dell’incontro il proprio credo, la loro arte si è espressa in tutto il mondo sotto forma di baratto, eppure «Ogni artista è un’isola a sé», dice Corrado d’Elia, nel chiedere a Julia Varley come stia vivendo questo momento di isolamento. «Ho sempre trovato molto piacere nei momenti in cui il teatro va in vacanza e io posso lavorare da sola in sala, senza l’obbligo del risultato. Adesso, trovandomi nell’obbligo di rimanere da sola, il piacere mi si è rivoltato contro. Ho trasformato il mio salotto, ho spostato tutto per poter fare una sala di lavoro a casa, cosa che non avrei mai pensato di fare prima. Quello che è strano è che faccio delle prove per uno spettacolo di gruppo e mi trovo a lavorare da sola, immaginando i miei compagni accanto a me».
La conversazione va velocemente al nodo centrale che costringe i pensieri di tutti i teatranti in questo momento: la funzione del teatro e il ruolo dello Stato a sostegno di questa funzione. Porcheddu, ribadendo e rilanciando un concetto a lui caro: «Quanto il teatro è fondamentale per la comunità? Si può, come è stato a Holstebro, far vivere la comunità intorno al teatro?».
E, ancora: «C’è un piano economico politico, di coscienza lavorativa e poi c’è un piano morale e simbolico. Su questi due livelli il teatro penso che abbia bisogno dell’impegno e della lotta: rivendicare un sostegno di Stato adeguato, non è una follia. Lo Stato deve sostenere il teatro perché il teatro crea la comunità, aiuta a vivere meglio anche chi non lo frequenta».
La questione della necessità è scottante, cruciale. «Noi non abbiamo mai detto alla città che siamo necessari – è la risposta di Julia Varley – non possiamo essere noi teatranti a dire che siamo necessari, diventa imbarazzante. Dobbiamo creare le condizioni perché siano altri a dire che siamo necessari. Questo è un punto di vista molto diverso perché ci mette nella posizione dell’impegno, non della lamentela. Dobbiamo ribaltare la nostra posizione».
In merito alle preoccupazioni economiche, il fondatore dell’Odin si dice angustiato profondamente – nessuno è immune alle preoccupazioni per la sopravvivenza. Rispetto, invece, al problema politico sollevato da Porcheddu, Barba, sollecitato dal critico teatrale a immaginare se i tempi siano fertili per dar vita a un nuovo “movimento”, sviluppa un più ampio ragionamento. Parla di un teatro d’ingaggio, il più diffuso nel mondo, fondato sull’efficienza, e poi parla di un teatro che non ingaggia ma vive, in cui le persone «non hanno la continuità, ma hanno delle motivazioni che lo fanno diventare movimento. Il movimento nasce dalle persone, non si può creare». Prosegue parlando della necessità di conquistare una libertà rispetto alle decisioni politiche: «Non credo che i politici siano interessati al teatro. Perché non pensano in categoria di cultura, ma di potere. Per questo non credo che lo Stato aiuterà il teatro. Gli unici Stati che hanno aiutato il teatro sono stati la dittatura dell’Unione Sovietica e il nazismo, purché il teatro facesse quello che loro volevano. Il teatro è un animale selvaggio, non può aspettare di essere finanziato e accettato, soprattutto se a decidere sono le categorie di una commissione ministeriale».
Non si finisce mai di ragionare sul “Signor Sistema”, evidentemente al collasso, sulla pressione dei parametri di quantità, sulla spinta di produzione a tutti i costi, sull’ossessione del bando, sullo sfruttamento delle giovani generazioni; un sistema che rischia di impoverirsi in termini di umanità, di creatività e – perché no? – di utopia.
Sergio Maifredi, che la scorsa stagione al Teatro Comunale di Sori ha ospitato Eugenio Barba con Storia di un emigrato diventato regista, chiede a lui l’ultima parola.
«Io so che non sono necessario, neanche come essere umano. Ho fatto teatro perché volevo costruire un mio mondo. Il teatro non è necessario alla società, soprattutto oggi, è necessario a noi che lo facciamo. La vera forza del teatro è il grado di necessità delle persone che lo fanno, loro creeranno il movimento, troveranno le soluzioni. Per questo il teatro non scomparirà: ci saranno sempre delle persone strane che sentiranno il bisogno di farlo».
La diretta si conclude con un saluto inaspettato, auspicio di energia nuova, fiducioso, senza spiegazioni: il cinguettio degli uccellini di Julia Varley – lo ricorderà certamente chi ha assistito a L’Albero, la scorsa stagione, a Roma al Teatro Vascello – un’orchestra di primavera, un canto ostinato.