Le maglie si allentano, gradualmente le attività ripartono, ma a condizioni non chiarissime. Sanificazione e Sicurezza, sono le parole d’ordine. L’apertura dei teatri, dapprima ipotizzata addirittura per dicembre, è stata annunciata per il 15 giugno. Non è chiaro se queste riaperture siano intese come uno “scongelamento” della normalità preesistente, ma di certo questa emergenza ha evidenziato le falle del sistema teatrale italiano e il dibattito resta caldo intorno a questioni che riguardano sia possibili – e quanto mai necessarie – riforme, sia la categoria dei lavoratori dello spettacolo, che vuole affrontare, una volta per tutte, le proprie fragilità. Gettiamo uno sguardo su questi scenari ancora da definire insieme a Marcantonio Lucidi, giornalista e critico teatrale già per Il Messaggero, La Stampa, Avvenimenti, attivo oggi su marcantonioluciditeatro.it
Come si sente dopo settanta giorni senza teatro?
Due sono le cose che mi mancano principalmente: una è il caffè al bar, e questo da due o tre giorni riesco più o meno a prenderlo, l’altra cosa che mi manca davvero, è il teatro la sera. Per me il teatro è un fatto taumaturgico. Una volta, ero molto giovane, mi venne il colpo della strega, ma ero costretto per il giornale ad andare a vedere uno spettacolo. Esco dalla redazione piegato in due, salgo in macchina e vado al Teatro Vittoria praticamente con la bocca sul clacson. Arrivato al teatro, Attilio Corsini, che era ancora vivo all’epoca, mi vede così e mi chiede cosa stavo facendo. Io dico che devo necessariamente vedere lo spettacolo e quindi mi piazzano in una poltrona leggermente defilata. A fine spettacolo, sono uscito dritto, era passato il mal di schiena. Da quel momento, ho avuto la certezza che il teatro guarisce una grande quantità di malattie (forse pure la pellagra!). Vorrei raccontare questo episodio al nostro ministro e dirgli che io non l’ho mai visto a teatro in trentacinque anni, però gli assicuro che a teatro i virus non circolano, hanno paura, non so perché. Io non prendo a teatro le influenze, le prendo sull’autobus.
Alla conferenza stampa il ministro Franceschini ha rassicurato i lavoratori che per il settore Cultura e Turismo sono stati stanziati 5 miliardi. Ma la partita si è conclusa 4 – 1 per il turismo. A guardare queste cifre, possiamo dire che nella ripartenza non si stia scegliendo di puntare sulla Cultura?
Se qualcuno mi avesse chiesto di fare la previsione avrei detto 4 – 1, volendo essere ottimista. Spacchiamo il problema in due. La prima questione è che un Paese ha la Cultura che si merita. Voglio dire, non si può imporre a un Paese, a una classe dirigente, a una classe politica, una Cultura che non vuole. Da trent’anni si dice che in Italia non si legge, non si va a teatro, che l’arte non è considerata, che è pagata pochissimo… Ma il punto è: il Paese ha voglia di arte e di cultura? Il Paese si rende conto delle ragioni per cui – tanto per fare il solito stramaledetto esempio – in Francia Macron pochi giorni fa ha messo su un piano per la Cultura gigantesco per cui quel miliarduccio di Franceschini fa ridere? Perché se questo Paese non ha voglia di arte e di cultura, non ha voglia di avere un ruolo geostrategico, non ha voglia di utilizzare, come fa la Francia, la Cultura in termini di movimento di una grande potenza, allora il Paese è condannato. La Francia, nonostante tutto quello che sappiamo del suo declino come grande potenza, ha compensato con una straordinaria consapevolezza di ciò che poteva fare in termini culturali per restare importante nel mondo. Il risultato si vede: l’Italia è un paese marginale, povero, che dal punto di vista culturale non conta praticamente niente – e questo lo si può dire anche oggettivamente: quanto valgono le opere italiane sul mercato internazionale dell’arte? Quanto pesa la lingua italiana attualmente nel mondo rispetto alla lingua francese? – Se il Paese ha deciso il declino non ci si può fare nulla.
E il secondo aspetto?
Il secondo aspetto riguarda la decadenza delle élite italiane che non esistono più. La classe dirigente italiana è di una incompetenza grave. Non parlo solo dei politici, anche la grande amministrazione, i capi di gabinetto dei ministeri, i dirigenti generali dei ministeri, pezzi interi della classe industriale. Questo declino lo si vede oggi, in maniera molto semplice, nella faccenda ridicola del commissario Arcuri e delle mascherine, che è chiaramente indice di una estrema difficoltà ad amministrare problemi di ordine pubblico. Questo è un Governo che attraverso un commissario, quindi uno con dei poteri, non riesce a fare distribuzione di mascherine, mentre sempre nella solita, stramaledetta, Francia esistono le indicazioni per i luoghi dove trovare le mascherine gratis. È chiaro che c’è qualcosa che non va. C’è un problema di autorevolezza. Dunque, il punto diventa che le élite non sono preparate, non dico a occuparsi di cultura, che è un campo a loro totalmente precluso per incompetenza, ma nemmeno a gestire delle mascherine. Quindi io ritengo che questa incapacità di capire i problemi del teatro è una incapacità che si iscrive all’interno di una crisi gravissima, generale, del Paese. Senza dimenticare che proprio da Franceschini, attraverso un decreto ministeriale del 1 luglio 2014, è stata fatta una radicale, sostanziale, riforma del sistema del Fondo Unico dello Spettacolo senza passare per il Parlamento. Sarei dell’avviso di andare a chiedere a un costituzionalista se una cosa del genere è sopportabile.
Lei parla della scelta da parte dei governi e delle classi dirigenti di non servirsi dell’arte come strumento di affermazione per il Paese. Che legame esiste tra la considerazione che il Governo ha del mondo della cultura e quella che ha la gente comune?
Sono fermamente convinto che non esista soltanto una popolazione che conosce Ezio Bosso perché Conti l’ha invitato a Sanremo, quando Ezio Bosso era già, – come al solito! – famoso all’estero. C’è un Paese che noi conosciamo, che va teatro, che va al ristorante a parlare di teatro e di letteratura, di opere d’arte. Questa fascia di popolazione non è maggioritaria, ma ha competenze e capacità infinitamente superiori ai suoi dirigenti. Questo è un problema grosso perché un conto è la politica da bar per cui tutti esprimono giudizi e opinioni – e viene anche da ridere –, ma il giudizio sulla politica è quello che danno le persone che leggono, vanno a teatro, vanno al cinema, che si interessano di letteratura, non in modo professionale. Quella fascia che sente una necessità per cui adesso sta su Zoom ad ascoltare le presentazioni dei libri. Quella fascia ha una superiorità culturale e morale che la politica e le classi dirigenti – profondamente deficitarie e attaccate al potere – si sognano.
Poi c’è un altro aspetto: io appartengo a un ideale politico, forse un po’ invecchiato, che non vuole tenere conto in nessun modo dell’altro grande fenomeno dopo la corruzione delle classi dirigenti: la mediatizzazione, sgarrupata e volgarissima, del personale politico, che trovo indecente, non solo come fatto politico, ma proprio come fatto estetico, di eleganza, di cura. Ho sempre ritenuto, alla vecchia maniera, che la politica avesse anche una funzione “pedagogica”. La storia che la politica debba dare un esempio è banale, ma è una storia. Se si fa conto di quello che è successo nel resto dell’Europa si trovano degli esempi, anche molto complessi e discutibili, contraddittori, ma un personaggio come François Mitterand ha dato un esempio al suo Paese, anche un personaggio come Helmut Kohl in Germania. Un’attenzione e una cura del proprio popolo che i politici in Italia non hanno mai espresso, per diverse ragioni, ma il risultato storico è che la politica italiana ha avuto due momenti di estrema gravità: uno si chiamava Tangentopoli e l’altro è la mediatizzazione del personale politico e tutto ciò ha fatto sì che non si potessero creare degli esempi. Se il Governo non riesce a fornire delle mascherine, come si può pensare che la popolazione indossi le mascherine? Io trovo che le persone per strada abbiano un comportamento civico di gran lunga superiore a questa gente e che la situazione sia meno allucinante di quanto potrebbe essere. Forse un minimo di speranza c’è.
Come era il teatro prima del coronavirus e come sarà dopo?
Non ho una grande opinione di questa bipartizione, non so se ci sia un prima e un dopo coronavirus. Ipotizziamo che si trovi un vaccino e la situazione torni più o meno quella di prima, la domanda è: abbiamo imparato qualcosa dalla storia del coronavirus? Abbiamo imparato, per esempio, che il teatro italiano deve occuparsi un po’ di più del suo tempo? Si sono tutti indignati, per la frase di Conte per cui il teatro diverte. Non c’era un vecchio motto latino che diceva «Castigat ridendo mores»? Se a teatro sfotto e prendo in giro te che governi, tiro fuori tutti i tuoi vizi e faccio ridere le platee, in questo modo le sobillo contro di te. Se, invece, dico in modo noioso cose importantissime, lo spettatore dorme e quindi non le sente. Lo spettatore è un personaggio particolare, non ha niente a che vedere con un cliente, non vuole per forza essere soddisfatto, al contrario va a teatro per essere turlupinato dall’illusione comica, perché attraverso la grande truffa della finzione possa comprendere qualche cosa della realtà che lo circonda. La gran parte degli spettacoli fino a tre mesi fa non riuscivano in questo. Si discute molto sul teatro, su come lo si fa, si vedono spettacoli in cui la pignoleria cade molto sulla forma, ma molto poco sulla sostanza. In questo sono un po’ hegeliano, nel senso che «il contenuto informa di sé la forma». Sono d’accordissimo sul fatto che il teatro debba essere fatto bene, ma stiamo parlando del grado uno, è ovvio che lo devi fare bene; una volta superato l’ovvio, bisogna sentire cosa sai dire della società in cui viviamo. Per esempio, cerchiamo di fare spettacoli in cui non si parli di coronavirus. Intendo dire che il teatro è metafora, non si può fare il bieco sottonaturalismo, che io chiamo “minuscolismo”, con quattro persone chiuse dentro una casa perché c’è il coronavirus. Piuttosto, mettiamo in scena i principi fondamentali che sono stati toccati dall’epidemia, facciamo qualcosa che sia metaforico rispetto a quello che abbiamo attraversato. Vorrei sapere qualcosa sulla natura umana. Sulla capacità del teatro italiano di essere a tal punto centrato sulla propria contemporaneità e allo stesso tempo metaforico rispetto a questa contemporaneità, ho dei dubbi.
Che idea si è fatto in merito al tentativo da parte dei lavoratori dello spettacolo di farsi categoria?
Una parte importante di quello che è successo al teatro italiano negli ultimi trent’anni è colpa della gente di teatro. Se si passa il tempo a pensare soltanto al proprio piccolo orticello di finanziamenti e non si costruisce una struttura forte, un sindacato degli attori, della gente di spettacolo in generale, dentro il quale ci siano tutte le divisioni e le contraddizioni possibili, ma che possano essere composte all’interno di una visione unitaria della cultura e dell’arte, come si possono costruire delle politiche culturali? Gli artisti si sono fatti dividere dalla politica, non sono stati capaci di unirsi. La politica è una di quelle attività in cui vigono due elementi centrali motori, che sono il ricatto e la mediazione. La politica si fa avendo degli strumenti di pressione. Bisogna presentarsi davanti ai politici essendo in grado di spiegare loro che ne avranno un danno di immagine ed elettorale se non ascoltano, se non si siedono a un tavolo a mediare. Ora, questa spinta di categoria può essere la partenza di un ragionamento, certo, ma non possiamo veramente sapere se questo tentativo di farsi sentire riuscirà, oppure no. Quello che però possiamo sostenere è che ciò che non ha storia non ha, generalmente, futuro. Il mondo del teatro e della danza non ha uno storico di rivendicazioni, di unione, di mutuo riconoscimento, perciò è molto difficile che possano farsi sentire adesso. Quando le associazioni dicono che Franceschini non li riceve, mi viene da ridere, perché un politico ti riceve solo se sente che tu puoi essere o un aiuto o un pericolo. Vuol dire che, negli anni, non si è costruita un’esperienza professionale nelle relazioni con la politica, come invece è stato per altri settori. In questo momento il teatro è sotto ricatto della politica. Un’azione concertata collettiva dovrebbe porre la politica sotto il ricatto del teatro.
Cosa pensa dei protocolli di sicurezza previsti per la riapertura dei teatri? Sono fattibili?
No, secondo me. Il teatro è un certo modo di stare insieme, un certo modo di vedere il mondo, le relazioni con il prossimo. Se si vuole modificare questa bimillenaria costruzione della relazione, questa abitudine che abbiamo, tutti noi, di essere spettatori e di essere in un certo qual modo un corpo unico, ci vogliono soldi. Perché io tornerò a teatro il giorno stesso che riaprono, ma non si può pretendere che lo facciano tutti. Se una struttura da 700 posti ne potrà contenere a occhio e croce 200, i teatri sono in grado di fare due spettacoli al giorno? Può il ministero finanziare questi spettacoli? Serve una mano fattiva. Cosa significa ricominciare? Significa avere un progetto e perseguirlo.
Nel 1596-97 mentre Shakespeare scriveva Romeo e Giulietta ci fu la pandemia e teatri londinesi rimasero chiusi per due anni. Il teatro non è morto per questo. Il teatro è rimasto vivo perché la Regina riteneva che il teatro fosse un elemento centrale della vita pubblica, aveva un progetto per quel paese, dentro il quale c’era anche il teatro. I signori al Governo hanno un progetto per questo paese? Sono in grado di rispondere alla seguente semplice domanda: secondo voi fra dieci anni l’Italia cosa deve essere? Se non si risponde a questa domanda io mi alzo dal tavolo della conversazione e me ne vado (a vedere uno spettacolo).
Quale sarà il ruolo dei Direttori artistici nella ripartenza? Dovranno assumersi una responsabilità maggiore come datori di lavoro, cercando di impiegare quanti più lavoratori possibili, per garantire una ripartenza più ampia?
Penso di sì. Però, anche qui, qual è la linea editoriale del Teatro di Genova, o del Teatro di Roma, o di Torino? Non contesto il sistema di scambi praticato dagli stabili, quello che contesto è che gli scambi e le programmazioni non discendano da una linea editoriale estetica e artistica, e, quindi, ogni nefandezza è permessa. Il problema dell’istituzione come datore di lavoro, è un problema complesso che è determinato dal tipo di teatro che vuoi fare, dalla linea estetica che hai in testa, dalle scelte. Io sono fra quelli che sostengono che il teatro non lo si può capire se non ci si rende conto che la triade fondamentale di quest’arte è: sistema di produzione/drammaturgia/spazio scenico. Dunque, tu mi devi dire che tipo di teatro vuoi fare, con quale tipo di drammaturgia, e quindi di istanza contenutistica, e il sistema di produzione ne sarà conseguenza. Dimmi cosa vuoi fare e ti dirò cosa serve. Si fissa un limite dal punto di vista di budget: se il Paese è povero, ci sarà un teatro povero, ma può essere un teatro artisticamente e contenutisticamente estremamente ricco. Personalmente metto al primo posto il fatto artistico, costruisco una necessità economica e da quella valuto se il fatto artistico vale la pena. Non riesco a prescindere da una visione totale del fatto teatrale. La questione dell’impiego di artisti e maestranze è legata, per me, all’idea di teatro che vuoi fare. È una visione del tutto utopica, in Italia. Ma in atri Paesi non lo è.
I teatri sono chiusi. Il critico che fa?
Il critico fa lezione ai suoi allievi via Zoom poi lavora all’ipotesi di un altro libro di teatro e poi, anche lui, cerca di sopravvivere. In questo tempo ne ho approfittato per scrivere molto. La recensione spesso è un’operazione lunga e laboriosa che toglie tempo ad altre scritture. Ho rivisto vecchi trattati di storia del teatro, riletto vecchie recensioni dei critici nel passato, insomma ho sciacquato i panni nelle acque letterarie del teatro. E mi sono chiesto: esistono ancora i grandi critici di una volta? Abbiamo un Flaiano, un De Monticelli fra di noi? È una domanda vera, la mia. Perché la critica teatrale è finita così male? C’è stato, forse, un problema di selezione dei critici teatrali, e lo dico anche contro di me che sono stato selezionato negli anni ’80 da un grande giornale come Il Messaggero. Sono profondamente dubbioso della mia qualità di critico di fronte all’analisi che spesso faccio della società italiana negli ultimi quarant’anni, sono dentro a questo fallimento. Bisogna essere duri con se stessi per poter essere duri anche con gli altri.