Riflessioni sul teatro in quarantena. Intervista a Roberta Scaglione

L’epidemia globale di Covid-19 ha tramutato il nostro mondo in un mondo nuovo, fatto di pixel e schermi retroilluminati, di relazioni fra uomini private della possibilità di compresenza, di restrizioni, attenzioni, accorgimenti, igienizzanti per le mani, di saluti scambiati con la mano e guanti in lattice ad almeno un metro e mezzo di distanza, di museruole chirurgiche che appesantiscono il respiro. Come conseguenza delle disposizioni ministeriali, i teatri sono fra le prime realtà a chiudere i battenti. Prima con la promessa di ritrovarsi a dicembre, come un grottesco regalo di Natale, pagato sicuramente a caro prezzo e, poi, con l’annuncio della possibilità di riapertura al 15 giugno. In questo contesto, abbiamo intercettato la testimonianza di Roberta Scaglione, co-fondatrice assieme a Claudia Di Giacomo della società PAV, che ci ha descritto le nuove tensioni affrontante dalla realtà produttiva e promozionale di cui si occupa, spostando poi la riflessione su un piano più ampio: la crisi dell’impresa culturale, partendo dall’inesistenza di una dicitura formale e istituzionale che la identifichi e approdando alla mancanza di norme adeguate che la regolino.

PAV è il primo nostro interlocutore, in questa rassegna di interviste, che si muove in maniera mirata nella dimensione della produzione e della promozione.  Fondata nel 2000, ha alle spalle un’esperienza forte e importante in questo settore. Come nasce PAV e come è riuscita a conquistarsi questa solida posizione?

Per definire PAV è interessante fare un passo indietro al momento della sua nascita. Sia io che Claudia Di Giacomo, l’altra socia fondatrice della società, abbiamo avuto diverse opportunità – e questo ragionamento ritengo possa essere utile per inquadrare il mio rapporto con l’impresa e in generale sulla costituzione di soggetti operanti nel settore – di fare molta esperienza a livello personale. Già durante gli anni dell’università abbiamo cominciato a guardare il mondo e la comunità di riferimento, diventando per prima cosa spettatrici assidue di teatro. Entrambe poi ci siamo auto-formate attraverso esperienze multiple e diversificate, la modalità era quella del learning-by-doing: non c’erano dei corsi di formazione relativi al management culturale che ti “insegnassero” il mestiere. Il nostro incontro è avvenuto in un progetto specifico, Per Antiche Vie, prodotto dal Teatro di Roma allora Teatro Stabile della Città di Roma sotto la direzione di Mario Martone, progetto per il quale entrambe eravamo state assunte con un contratto a tempo determinato. In seguito alla chiusura del progetto, ci contattò l’amministrazione capitolina poiché c’era un interesse a sviluppare il connubio sperimentato nel progetto Per Antiche Vie, ossia quello tra letteratura e teatro: ci chiesero di realizzare una manifestazione che mettesse insieme questi due percorsi. Nacque così il progetto Raccordi, non avevamo però una struttura giuridica nostra e fu proprio quella l’occasione in cui fondammo il primo organismo nella forma dell’associazione culturale. Lo spirito che ci ha mosso è stata la volontà di capitalizzare l’esperienza lavorativa fatta nell’anno e mezzo di progettazione ed esecuzione di Per Antiche Vie. La nostra struttura, più che solida, è stata fin dall’inizio sostenibile dal momento che nasciamo con un incarico e questo non succede sempre. Con i fondi assegnati, abbiamo dato l’avvio: eravamo così già all’interno di una cornice sostenibile, ciò che ci fu assegnato per realizzare l’iniziativa è stato considerato come il capitale di una start-up. Sostenibilità è la parola chiave e questa scaturisce dal rapporto con le istituzioni di riferimento. La nostra è una struttura che ragiona in termini di economia sostenibile e fondamentale è il rapporto con i progetti, quindi con i finanziamenti e contributi che riusciamo ad interessare e coinvolgere sulle nostre proposte, che ci consente di tenere in piedi un gruppo di collaboratori la cui regola è: avere sempre un rapporto professionale, economico. Cerchiamo di stabilizzare questo rapporto, nei limiti in cui può farlo una struttura che appartiene all’universo delle micro-imprese. PAV non ha una pianta organica che può andare in espansione e, per sua stessa natura, non è delineata come luogo in cui chi collabora fa una certa carriera, sale di livello e stipendio. Anzi, è un luogo in cui condividiamo molto, cercando di stare sullo stesso piano, naturalmente difendendo talenti e competenze che emergono in alcuni casi. C’è un lavoro quotidiano sull’insieme di tutte le componenti: tutto il processo del ciclo produttivo è condiviso. Anche se è una struttura che non ti consente di fare il canonico “scatto di carriera” per come lo si intende in un ente pubblico o in qualsiasi ente più complesso, ti consente di avere tanta autonomia e creatività da sperimentare e mettere in gioco. Siamo un organismo che mette al centro della propria vita produttiva il rapporto con le istituzioni.

La vostra società è capofila del progetto a larga scala co-finanziato dalla commissione Europea “Fabula Mundi Playwriting Europe” costituito da una rete di 15 partner internazionali. In un periodo in cui siamo obbligati ad allontanarci da altri corpi almeno a un metro e mezzo di distanza e in cui ci è negata la possibilità di spostarci fisicamente, come si reinventa Fabula Mundi?

Provo a formulare qualcosa che non è una risposta, poiché molte risposte ancora non ci sono. La nostra storia con l’Europa è complessa e articolata e ha comunque all’origine la volontà di un approfondimento sul nostro territorio. Nasce anche qui in seguito al contatto cercato da un’istituzione, l’Ambasciata di Francia, con l’obiettivo di darci un incarico, una vera e propria commissione, per promuovere la drammaturgia contemporanea francese in territorio italiano. Appena fu possibile, riuscimmo a creare la bilateralità: il passo a quel punto divenne più semplice. Avevamo due progettualità già intersecate e bilaterali e venne spontaneo guardare verso gli altri paesi in cui avevamo delle conoscenze, già possibili partner: nacque così il primo Fabula Mundi in piccola scala, divenuto poi un progetto larga scala per il triennio 2017-2020. Adesso siamo in chiusura: a dicembre 2020 finisce quest’ultimo mandato della call di Europa Creativa. Dovremmo chiudere con una sezione che dovrebbe assumere la connotazione di un Fabula Mundi Festival, un’azione globale e complessiva di restituzione. Peraltro, attraverso una votazione svolta con tutti i nostri partner, era stata scelta l’Italia come suolo in cui sviluppare il Festival in quanto paese capofila del progetto. Ora le questioni sono sospese, siamo in una fase in cui abbiamo avviato un processo di revisione, tenendo di conto che ogni giorno ci sono cambiamenti repentini relativi a nuove disposizioni. Abbiamo fatto con tutti i nostri partner diverse riunioni interne in cui abbiamo (e stiamo) cercando di capire quale possa essere una modalità altra per chiudere. Di iniziative, durante il triennio del progetto, ne abbiamo fatte molte: ad oggi non abbiamo vincoli numerici da raggiungere in relazione alla proposta presentata alla Commissione Europea, siamo state generose in questo senso nei confronti dell’Europa perché sono stati loro per primi molto generosi con noi, con i nostri partner ed artisti. Però c’è la volontà di farlo, la passione e la voglia di chiudere dimostrando la nostra sostenibilità globale, mettendo in evidenza gli obiettivi raggiunti dopo tanti anni nella dimensione della drammaturgia contemporanea e le azioni fatte a favore del suo sviluppo. Più che raggiunti, forse è meglio dire obiettivi messi a fuoco poiché, nel nostro campo, non si segna mai una linea di arrivo. La zona finale è molto importante per noi poiché è la chiave da cui partiamo per cercare un futuro. Siamo già dentro a questa fase, però per arrivare a una chiusura vera e propria manca un passaggio.

A proposito di dimensioni altre, sui canali social abbiamo avuto un esubero di riflessioni che avevano tutte un unico soggetto: il teatro in streaming. Qual è l’orientamento di PAV nei confronti di questa nuova dimensione? Avete pensato a come (e se) declinare la vostra vocazione produttiva in questo scenario così diverso e distante dal teatro in compresenza di corpi?

In questo periodo ho continuato la mia attività di formazione e penso che, anche in questo caso, lo streaming sia stato uno strumento. È qualcosa che consente a diversi organismi e soggetti di dimostrare che esistono, in un dialogo che si instaura soprattutto con le istituzioni che li stanno finanziando, producendo e sostenendo. Non solo, ha anche un valore comunicativo rispetto all’arte, rende possibile il mantenimento di un contatto con la comunità di riferimento. Credo che nessuno sia del parere che questo mezzo possa sostituire o sostituirà mai la presenza e il live. È qualcosa che semplicemente ci sta accompagnando di necessità nel momento in cui lo spazio pubblico è chiuso e proibito. Non si può preformare. Lo spazio virtuale sembra aver creato una zona di ospitalità in cui si possono anche sperimentare forme creative, più o meno qualitativamente interessanti, più o meno emotivamente coinvolgenti. Rimane però un attraversamento temporaneo. In un’intervista, Claudio Longhi le ha definite «altre esperienze artistiche». Nel momento in cui torneremo in presenza, può darsi che lascino una traccia in tutti noi, come ad esempio una maggior competenza tecnologica anche declinata in maniera artistica. Tanti artisti stanno cercando di capire ancora come abitare questo spazio virtuale: se l’urgenza artistica porta a un’espressione, non necessariamente dopo la dovremmo abbandonare. Non stiamo valutando produzioni di dispositivi digitali tout court, ma, ad esempio nel caso di Fabula Mundi, verificando con i partner come abitare lo spazio virtuale, chiedendo in particolare agli artisti ed autori del progetto di scrivere e partecipare al nostro blog online attraverso una riflessione sul momento, non didascalica, ma emotiva. Dopodiché tutti i nostri partner hanno il compito di individuare, attraverso le loro reti di artisti, quali potrebbero essere le proposte per abitare questo spazio, contando però di realizzare comunque una zona di presenza. È necessario anche considerare le esigenze dell’audience, chiedendosi: a chi ci rivolgiamo? Come ci rivolgiamo e proponendo che cosa? La proposta non può essere torniamo alla normalità perché è successo qualcosa nel mezzo, evidentemente. Il dispositivo culturale e le dinamiche di riferimento sono mutati, quindi dobbiamo mutare per forza anche la nostra narrazione, è un dovere e un nostro compito. Uno dei grandi interrogativi è proprio quello riferito alla relazione con la comunità-pubblico, sia del suo development, ma soprattutto del suo engagement, ossia del suo coinvolgimento complessivo. La risposta sta nel valore e nel contenuto della proposta, al di là di un contenitore che sarà da trovare.

PAV risulta essere estremamente attiva sotto il punto di vista del supporto ai singoli artisti nella gestione e mediazione contrattuale. La mancanza di compattezza in questa particolare categoria di lavoratori è emersa sempre più violentemente a causa dell’emergenza sanitaria dovuta al Covid-19. Quanto peso ha in questa disorganicità la mancanza di una definizione anche istituzionale dell’atipicità del lavoratore del settore spettacolo?

Con i miei studenti, nella modalità della didattica a distanza, ho affrontato un’analisi dello stato dell’impresa culturale adesso. La prima cosa che ci siamo chiesti è stata: chi eravamo fino a un minuto fa? Dobbiamo tentare di rispondere inquadrando il passato recente che ci definisce e determina, cosa succede poi con l’emergenza sanitaria e l’alzata del sipario rosso sulla fragilità dell’impresa culturale e della sua mancanza di norme specifiche. La prima difficoltà è esattamente la mancanza di definizione di questa tipologia di imprese: io utilizzo il termine impresa culturale che, in realtà, non esiste. Siamo sempre ai limiti di una norma che attraversiamo, senza mai essere adempienti fino in fondo. Le criticità emergono in maniera forte quando si entra nel contesto del rapporto impresa-lavoratore. L’emergenza sanitaria ha svelato l’enorme quantità di lavoratrici e lavoratori che non hanno possibilità di accedere ad ammortizzatori sociali perché a monte mancano delle forme contrattuali adeguate. Questa mancanza è dovuta non perché ci sia un’attitudine alla disonestà, almeno in generale, o all’incapacità delle imprese di gestirsi, ma a una scarsa sostenibilità delle economie con cui suddette imprese hanno a che fare, in relazione ai nuclei di risorse umane che sono necessari per sviluppare e completare i progetti. Siamo stati un po’ tutti complici in questo senso, sia le imprese che le istituzioni che designano, attraverso i bandi e le politiche culturali, delle attività e individuano i soggetti operanti sul territorio. Tutto questo in una generale scarsità di economie. Nel dialogo con l’istituzione è questo ciò che va messo in evidenza, cercando anche di portare all’attenzione in questo momento che il fattore economia e il fattore tempo sono dirimenti rispetto a come sarà il nostro futuro.

«L’idea potrà partire quando sarà sano aprire i luoghi pubblici. Non è una sollecitazione ad affrettarne la riapertura. Semmai è un’idea per rendere possibile l’anticipo della riapertura, per aprire in modo nuovo: se aspettiamo che si possa tornare a riempire i teatri rischiamo di tenerli chiusi mesi e mesi». Sono le parole di Gabriele Vacis in una lettera che ha come focus la riapertura dei teatri. Come potrà articolarsi questa riapertura, a suo avviso?

Sento l’esigenza della riapertura, come tutti. Al di là delle provocazioni che vengono lanciate e dichiarate, primario è il rispetto delle norme stabilite dal comitato tecnico-scientifico: è necessario inquadrare un andamento epidemiologico di questo virus prima di avanzare delle proposte, tutto questo nell’ottica di un’assunzione di responsabilità. Io mi assumo una responsabilità in quanto datore di lavoro anche rispetto alla riapertura dell’ufficio che, francamente, non riapro al momento. Stiamo cercando, nel rispetto delle norme, di creare condizioni possibili per un eventuale uso del luogo di lavoro. Riguardo alla provocazione delle parole di Vacis, mi rendo conto che facciamo fatica a essere intercettati nella nostra dimensione di ciclo produttivo complessivo. La resa, lo spettacolo è un momento in cui esistiamo per il sistema paese e per il nostro pubblico. In realtà il ciclo produttivo, come tutti i cicli produttivi del resto, inizia ben prima. Per altre realtà, questo percorso è chiaro, invece quando andiamo a vedere uno spettacolo il ciclo produttivo, professionale ed economico sembrano non essere messi a fuoco. Sentendo le parole di Vacis, mi sono immaginata un open-space in cui tutti possiamo entrare nel rispetto della sicurezza pubblica e forse cogliere anche l’occasione, da parte delle nostre città e i nostri territori di riferimento, per prendere coscienza sulla ricchezza e ampiezza delle diverse fasi del ciclo produttivo e quindi delle sue necessità economiche. Nell’attesa, immagino l’estate come grimaldello per iniziare a rivivere lo spazio pubblico, cercando di attenuare la sofferenza e la paura che comunque sono ben presenti, e riprendere un contatto. Bisognerà reimparare a fruire dello spazio pubblico con le potenzialità che questo offre quando è abitato dalla cultura.

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