Dalla fine di gennaio il progetto Per un teatro necessario ha inaugurato un ciclo di incontri intitolato L’attore tra teatro, cinema e new media, all’interno del SARAS (Dipartimento di Storia Antropologia Religione Arte Spettacolo) dell’Università La Sapienza, per discutere delle diverse declinazioni e trasformazioni del mestiere insieme ai professionisti del settore. In tempi di chiusure e incertezze sembra paradossale parlare di pratiche e poetiche che mancano dalla memoria da diverso tempo e che non si sa come si ritroveranno nell’imminente futuro, anche dopo che il via libera per la riapertura è arrivato, ma senza che né le domande né le mancanze legislative siano state colmate.
Protagonista del quarto incontro del 16 aprile, il primo in formato diretta streaming, è stato Giorgio Barberio Corsetti, autore, attore, regista e storico fondatore della compagnia Fattore K, nonché ex Direttore generale e neo Direttore artistico del Teatro di Roma, in dialogo con i docenti Guido Di Palma, coordinatore del progetto, Francesco Calcagnini e Andrea Porcheddu.
Nel delineare il suo percorso artistico e professionale, particolare rilevanza è stata data agli incontri di Corsetti con il corpus delle opere kafkiane, svariati nel corso della sua carriera, entrando soprattutto nel merito di spettacoli come Descrizione di una battaglia (1988), Il processo (1998) e America (1992). Le domande si sono concentrate specialmente su quest’ultimo spettacolo, tratto dall’omonimo romanzo giovanile di Franz Kafka, di cui gli studenti del corso di Scenografia virtuale – tenuto da Francesco Calcagnini – si stanno occupando per un progetto di messinscena digitale.
«Uno spettacolo è sempre un viaggio verso», ha affermato Guido Di Palma nel corso dell’incontro, definizione che soprattutto a proposito di America ben ricalca il lavoro di Giorgio Barberio Corsetti per la costruzione di questo spettacolo itinerante. Partendo dalla sua infanzia, Corsetti ripercorre il suo incontro con Kafka: «È stato uno degli autori che ha fatto parte della mia educazione all’esistenza. Facevo le medie e a casa mia c’era una libreria con una serie di libri che potevo leggere e altri per cui dovevo aspettare, perché contenevano delle cose che i miei genitori giudicavano scabrose. Fra questi c’erano anche le opere di Kafka, che leggevo in piedi pronto a riporli nel momento in cui gravitava qualcuno dei miei censori. Così ho cominciato a leggere Kafka, senza capire un granché ma comprendendo che era qualcosa di molto importante. Più tardi, difatti, ho realizzato che per me Kafka rappresenta la celebrazione della scrittura, dell’atto dello scrivere. Se si considerano le lettere, i diari, i taccuini, i Quaderni in ottavo, i romanzi, i racconti, si arriva ad un corpo di scrittura che in realtà è un corpo vivente, con flussi che si intersecano e che ti portano, tutto sommato, a conoscere Kafka meglio di quanto conosci te stesso».
Parlando della scrittura di Kafka, di un «linguaggio a cerchi concentrici che si autogenera», di corpi che si fanno scrittura incorporando immaginari e immagini, anche in maniera sofferente, Corsetti prende l’esempio di Nella colonia penale, dove al condannato veniva inciso sul corpo l’articolo relativo alla legge violata e in cui lo stesso riusciva a comprendere il suo errore solo nel punto della morte. Questo per sottolineare come la scrittura e i mondi creati da Kafka riescano inevitabilmente a rivelare un senso di limitatezza, la loro innata incomprensione fatta di gesti e situazioni in costante ambivalenza, rimandando a una «possibilità di comunicazione al di là della pura e semplice sopraffazione di questi universi, che si clonano e si moltiplicano». Una scrittura che si avvolge rendendo gli immaginari vivi, diventando «parte di un’attività di “come se”, di paradossi che diventano visibili, un mondo impossibile e allo stesso tempo perfettamente aderente e coerente». E continua: «Per me è stato praticamente naturale cadere dentro Kafka, dove la scrittura non è interrogata soltanto come modo unico di trasferire il pensiero in parole e poi depositarlo sul foglio, ma come un atto assoluto, un atto che si incide nel corpo, che ha a che fare profondamente col corpo e col gesto e che è totalmente e assolutamente non rappresentabile».
Altro argomento centrale della discussione è stato il video, sia rispetto all’esperienza artistica di Corsetti che in relazione alla vita in versione digitale che la situazione Coronavirus ha portato nel quotidiano di tutti, specialmente nell’ambito del settore teatrale. «Quando la Gaia Scienza si è divisa – spiega Giorgio Barberio Corsetti – ho incontrato Studio Azzurro che lavorava sulla videoinstallazione. Nel momento in cui abbiamo cominciato a lavorare insieme ci siamo posti il problema del rapporto tra il video e i corpi viventi. Le esperienze che abbiamo fatto si concentravano sulla presenza degli attori/performer/danzatori, sia sulla scena sia su un set dietro al palco. C’era questo gioco fra questi attori virtuali, dunque attori di luce, fatti di immagini luminose sullo schermo, e attori dal vivo. Veniva immediatamente messo in questione il concetto di materialità, il rapporto con l’immagine, con gli oggetti, con gli elementi».
Intervenendo sulle dinamiche attuali, sul rapporto fra presenza e schermi computerizzati, il critico e giornalista Andrea Porcheddu sollecita una riflessione sul «corpo freddo del monitor e il corpo caldo degli attori», in particolare a partire dalle differenze fra le prime esperienze di Corsetti e lo scenario odierno in cui «il corpo viene nuovamente negato, reso pericoloso, qualcosa da evitare e nascondere». A questo punto Corsetti comincia dalle esperienze della fine degli anni Ottanta, dove le tecnologie e i sistemi accessori della scena non erano agevoli come in tempi recenti, per arrivare a parlare di presenza come necessità prioritaria del teatro e come requisito fondamentale della relazione tra scena e platea: «Non so fino a che punto arriveremo con la situazione terribile in cui siamo, però il teatro ha bisogno della presenza e della collettività. È un’antinomia, il fiato, il respiro, è sudore, è liquido, per cui c’è il corpo ed è fondamentale. Secondo me, l’essenza del corpo della mente di un attore è il presente, è essere presente ogni istante. L’attore è presenza assoluta, ma questa si brucia, si estingue nello stesso tempo in cui si compie, se avviene davanti a qualcuno. Il teatro per esistere ha bisogno di queste esperienze, comuni e collettive, esattamente le cose che pare che non potremmo fare».
Come sempre, l’incontro si è concluso con la topica domanda del Professor Guido Di Palma a Giorgio Barberio Corsetti, ovvero: «Per te cos’è il teatro?», a cui l’artista risponde: «Il teatro mi ha salvato la vita. È un’arte che non si può fare da soli, che ha a che fare immediatamente con l’altro, si fonda sulla presenza, mettendola in questione, e sull’esperienza che si attraversa nel tempo di una rappresentazione o di una prova. È anche un’arte che ha una componente artigianale molto forte, in cui però l’artigianato è sull’invisibile, in cui le mani plasmano qualcosa che non c’è, che non appare, che ha a che fare con l’anima, che si costruisce ogni giorno. È profondamente connesso alla collettività, il teatro ha bisogno di una collettività in ascolto, legato al fatto che degli esseri umani si ritrovano a vivere insieme, è legato alla città, continua a interrogare l’essenza stessa della nostra convivenza».
Per chi non ha potuto assistere all’incontro con Giorgio Barberio Corsetti, ecco di seguito la registrazione integrale:
Prima parte
Seconda parte
Terza parte
Quarta e ultima parte
Seguono i link dei vari episodi realizzati dal corso di Scenografia virtuale B di America o Il disperso di Franz Kafka – Appunti per uno spettacolo:
Ph. Daniel Cande