Riflessioni sul teatro in quarantena. Intervista a Gabriele Vacis

Partiamo dal tuo “lockdown”: come hai vissuto questo tempo sospeso?

Dalla mia condizione di privilegiato, senza perdite economiche né personali, è stato un tempo regalato, per quanto dirlo possa sembrare sfacciato. Ho sentito il dovere di far fruttare questo tempo; attenzione, non sfruttare, ma fruttare nel senso di starci, come la frutta che ha bisogno di cure; prima della pandemia, il mondo era teso a sfruttare il tempo. Mi sono sentito coinvolto in un dibattito a cui ho partecipato proponendo possibilità per “il dopo” o anche di gestione… anche quando c’è stata la manifestazione dei lavoratori dello spettacolo, mi sono percepito parte della categoria come non mi capitava da un po’.

A proposito di impegno, nel tuo documento Riaprire i teatri sei stato tra i primi a parlare di questa eventualità che sembrava lontana, mentre poi il “via libera” del 15 giugno ha fatto apparire immediato un processo pieno di difficoltà, invece. Però, con il tuo “riapriamo veramente” metti in campo un altro genere di progetto…

Escluse le ore dello spettacolo e le pause per esigenze tecniche, i teatri sono sostanzialmente chiusi, vuoti per la maggior parte della giornata. Abbiamo bisogno di una società più generosa: perché bisogna essere “avari” di spazi meravigliosi come i teatri storici che in Italia sono in ogni cittadina? Per esempio, perché non si fa scuola nei teatri? Magari si può risolvere il problema del distanziamento nelle classi. Il rapporto pedagogico si fonda sul principio tutto teatrale di presenza: chi parla può ascoltare chi ascolta, chi agisce può vedere chi lo vede; è fondamentale per un insegnante come per un attore, le persone che stanno di fronte non sono indifferenti. Da consumatore di Netflix, mi rendo conto dell’utilità che hanno avuto questi strumenti, ma proprio per questo capisco come manchi la presenza. Bisogna fare un salto neuronale: pensare che non servono più solo gli spettacoli, anche perché il teatro riguarda sempre più l’essere presenti a sé, agli altri, al tempo, allo spazio. Ormai c’è più gente che fa teatro di quanta va a teatro…

Dunque la proposta, riferita ai teatri pubblici, discute in parte la dinamica di finanziamento della produzione continua di spettacoli che, per altro, non tiene in considerazione questo gap tra la domanda e un’offerta chiamata ad intercettare nuove necessità?

Più che una dinamica produttiva stiamo vivendo una dinamica algoritmica; tutto è organizzato sugli algoritmi ministeriali. È una follia. Noi facciamo un lavoro d’arte, la quantità non può essere l’unico parametro. Il teatro deve essere inclusivo, adesso è esclusivo. Se ne può discutere nei termini di una generalizzazione che ho abbozzato in questi mesi: c’è un teatro che chiamo “teatro-museo”. Ce n’è certamente necessità… amo i musei, a Torino vado al Museo Egizio fin da bambino e scopro sempre qualcosa di nuovo… sono scrigni custodi della tradizione e, a ben guardare, sono pochi i teatri di tradizione che veramente affondano le radici nella tradizione, come, che so, la Primavera del Botticelli e lo stesso vale per l’opera, un patrimonio da salvaguardare. I ragazzi hanno il diritto di accedere alla conoscenza di questi teatri attraverso la scuola, esattamente come fanno le gite nei musei. Poi, c’è quello che Lehmann chiama il postdrammatico; prima gli operatori temevano la diffusione della pratica teatrale come una minaccia alla propria autorità, in realtà essa genera soprattutto operatori che re-impastano la tradizione. Infine c’è il teatro dell’inclusione, che attua la trasformazione nel suo svolgersi. Viviamo in un’ipertrofia di forme, ma sta accadendo qualcosa: con l’inclusione produciamo interazione tra persone. L’autore? Non c’è. Ci sono persino artisti che si nascondono dietro la loro opera (Bansky ad esempio). Mettiamo in discussione la forma.

Raccontiamo un’ipotetica giornata di questo “teatro riaperto”: cosa ci si potrebbe trovare?

L’allenamento: il lavoro con la Scuola per Attori del Teatro Stabile di Torino potrebbe essere aperto. Nella lezione di chiusura dello scorso anno non ho mostrato niente di diverso dal lavoro quotidiano con i ragazzi. Oppure, si potrebbero svolgere lezioni universitarie di Storia del Teatro, dividendo tra partecipazione dal vivo e ripresa streaming. O ancora vedere i registi al lavoro:  ogni volta che ho visto all’opera i grandi del passato come Ronconi o Strehler, mi sono chiesto: perché privare il pubblico della meraviglia delle prove? Grotowski diceva che mostrare gli esercizi del laboratorio era mostrarsi mentre si lavava i denti, ma oggi nessuno ha problemi a rendere pubblico il privato. Alla sua epoca la protezione era necessaria per un luogo di preparazione, mentre oggi il laboratorio è il luogo. Peter Brook dà una definizione perfetta per lo spettacolo: «ciò che nella vita accade in vent’anni in teatro accade in due ore»; nel teatro oltre lo spettacolo bisogna avere la pazienza di non vedere accadere nulla, per esserne ripagati dalla visione della forma nascente. Il teatro deve essere esperienza.

Però quanti tra i tuoi colleghi, o tra gli attori, sarebbero disposti a permettere un’incursione del pubblico nel loro lavoro “personale”, a “scostare la tenda”?

Siamo abituati al teatro narcisistico, specchio di sé. In teatro, invece, si condivide lo sguardo con l’altro, radice della convivenza, della comunità e della democrazia. L’idea del divo come oggetto del lusso popolare andrebbe rivista: il divismo è sacrosanto, ma non se tutto il sistema è formato a convergere sulla formazione del divo, che per definizione è raro. Invece stando semplicemente dentro al mondo che si produce attorno a noi si scopre la dignità del lavoro di relazione. Io proporrei ai divi, che so, un mese all’anno per occuparsi d’interazione con le persone. Insomma, esiste il mondo. Durante la pandemia siamo entrati nelle case altrui, divi compresi, ed è stato un bagno di realtà. Ora stiamo facendo di tutto per tornare alla sospensione della realtà… Il mondo dispone di una serie di strumenti che nel sospendere la realtà, contemporaneamente la sbattono in faccia: se si parla di contenuto ai nativi digitali loro pensano alle piattaforme o ai video web, mentre nel Novecento contenuto significava profondità d’azione; l’interazione permette di immergersi in questa contraddizione, trasformando il contenuto in un guardarsi e lasciarsi guardare. Si pensi a quello che fanno artisti come Milo Rau con gli attori non professionisti… o agli spettacoli con la luce accesa in platea! Come nella Grecia classica, un teatro di meditazione civile e di rito purificatorio. Questo ha a che fare con la cura.

Specialmente con l’Istituto di Pratiche Teatrali di Cura della Persona intercetti il ruolo politico del teatro. Conte ci dice che gli artisti intrattengono; manca la consapevolezza del peso di un teatro che fronteggia un ragazzo, un malato… Sta nella cura il valore della tua proposta?

Assolutamente. Noi lavoriamo con la Rete Oncologica Piemonte, con l’ospedale pediatrico Regina Margherita di Torino. Oggi va di moda la medicina narrativa, per esempio, e il fenomeno narrazione è nato a teatro, influenzando poi l’informazione, la politica… È chiaro che il teatro deve affermare il suo ruolo politico: non vedo perché un teatro di puro intrattenimento debba essere finanziato con soldi pubblici. L’intrattenimento si paga, altra cosa è pagare la cura delle persone: abbiamo visto quanto lo smantellamento della medicina di base sia costato in termini di vite umane. Così come il teatro museo dovrebbe essere finanziato addirittura dal Ministero dell’Istruzione. Ad oggi le grandi istituzioni considerano le pratiche teatrali qualcosa che non le riguarda… lo stesso Istituto dal 31 dicembre, dopo tre anni, non è più un settore del Teatro Stabile di Torino. Le istituzioni non possono più attendere che il nuovo si consolidi prima di prenderne atto, perché la trasformazione è rapidissima.

Il tuo nome figura tra i firmatari della lettera aperta di artisti e operatori del settore a sostegno della direzione artistica di Giorgio Barberio Corsetti al Teatro di Roma. In chiusura, un commento a riguardo?

Sì, molti colleghi e amici fidati mi hanno riportato di un lavoro di apertura avviato da Barberio Corsetti e Francesca Corona, soprattutto per quanto riguarda il Teatro India. Prima di questa direzione, avevo condotto dei seminari all’India e avevo trovato uno spazio con delle potenzialità pazzesche, vuoto. Probabilmente un lavoro di rivalutazione del genere può già indicare la direzione di un progetto e io mi baso su questo: la mia firma, come credo l’intento del documento stesso, non entra nei risvolti politici o burocratici della vicenda, ma è una richiesta di ascoltare gli artisti.

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