Un “Uomo senza meta” per l’apertura di stagione al Teatro di Roma: intervista al giovane regista, Giacomo Bisordi

Mai fu tanto attesa – e complicata – l’apertura della stagione teatrale! I tempi sono ancora duri e incerti abbastanza da non poter cantare vittoria, ma ci si può concedere un sussulto di gioia. Il Teatro di Roma riapre le porte delle proprie sale alla programmazione “ordinaria” in tempi decisamente straordinari. Per tagliare il nastro della stagione 2020/2021, il direttore artistico Giorgio Barberio Corsetti ha scelto una giovane promessa del teatro italiano, che ha già accumulato importanti e prestigiose collaborazioni: Giacomo Bisordi. Già assistente di Massimo Popolizio, Gabriele Lavia, Peter Stein e altri, e tuttora collaboratore assiduo di Milo Rau, Bisordi porta in scena al Teatro Argentina dal 17 al 25 ottobre Uomo senza meta del drammaturgo norvegese Arne Lygre. Lo abbiamo incontrato alla vigilia del debutto.

Come nasce questo progetto?

Il progetto nasce a maggio quando Giorgio Barberio Corsetti, con l’intenzione di riaprire il teatro il 15 giugno, come concesso dal Governo, mi ha chiesto di presentare un progetto in tempi brevissimi. Mi ha lui stesso proposto una rosa di testi e autori, fra i quali ho scelto Uomo senza meta di Arne Lygre. La scelta è stata dettata anche dal tentativo di continuare un discorso che avevo lasciato in sospeso con un lavoro fatto nel 2016, Nella Repubblica della felicità di Martin Crimp. Questo testo diviso in tre atti ha una parte iperrealistica e un’altra parte in cui questo realismo viene sfondato; in una sezione centrale alcune figure sono ossessionate dallo scrivere il copione della propria vita. In tal senso, la scelta di Lygre aggiunge un tassello al discorso, nell’idea di fare di se stessi una finzione, non tanto in modo pirandelliano, indossando una maschera, ma scrivendo una vera e propria sceneggiatura della propria esistenza, rendendo così controllabile quella vita che di per sé non lo è mai. La cosa estremamente interessante di Uomo senza meta è che la storia giri intorno a delle dinamiche familiari, ma solo in apparenza. Perciò, noi abbiamo cercato di fare esondare il testo verso un senso più allegorico: si parla di senso della vita, della morte, del senso ultimo delle cose, della negazione di questo senso ultimo, arrivando a costruirsi una finzione per colmare un vuoto esistenziale.  

Al momento della scelta del testo, quanto ha influito il pensiero di dover rispettare le norme di comportamento previste per l’emergenza Covid-19?

In verità, ho scelto a prescindere. Sono molto d’accordo con chi dice che i limiti siano delle opportunità, e che mettere in scena spettacoli con le limitazioni costringa gli artisti a confrontarsi con le stesse e trovare una strada nuova. Il punto, però, è che bisognerebbe, allora, costruire delle drammaturgie pensate apposta. Immaginiamo che questa situazione duri a lungo, volendo essere molto pessimisti, e che la condizione in cui viviamo adesso diventi ordinaria amministrazione. A un certo punto, scrivendo, risulterebbe naturale pensare a questo tipo di realtà. Certamente, nel momento in cui ho affrontato la scelta del testo, il Covid19 era, ed è, un dato imprescindibile e ogni volta che il testo presentava uno schiaffo, un contatto, mi sono chiesto come ovviare al problema, da un punto di vista puramente scenico. L’altra questione emersa è la solitudine, da cui tutti fuggono, di cui è fatta questa storia. In questo senso, il distanziamento è diventato un materiale per riflettere non solo sulla solitudine di chi sta in palcoscenico ma anche su quella degli spettatori in sala. Quando a luglio è stata organizzata la prova aperta, abbiamo pensato molto al fatto che avremmo presentato lo spettacolo per duecento persone in un teatro che poteva ospitarne settecento, perché la cosa ci restituiva una sensazione di vuoto e solitudine. Adesso, tento di spingere ulteriormente il lavoro verso la consapevolezza che deve essere fatto un gesto forte nei confronti di chi, nonostante tutto, sceglie di sedersi da solo davanti a uno spettacolo. Deve esserci una sorta di patto tra le solitudini.

Qual è il tuo approccio con gli attori? Hai un metodo? Com’è il primo giorno in sala prove?

Di solito cerco di avere un’ipotesi di partenza. Tendenzialmente leggo il testo in maniera abbastanza superficiale, fiuto delle cose, intuisco dei temi e mi faccio una bozza in mente. Per il resto sono un improvvisatore, costruisco tutto in sala prove, cerco di tenermi il più possibile disponibile verso quello che accade in scena, e spesso le idee degli attori sono le più efficaci. Diventa un gioco di provocazione reciproca, in cui io spingo in una direzione e osservo la risposta, con un atteggiamento molto sperimentale. Le mie sono solo ipotesi, di fatto lo spettacolo  è il risultato di un processo di conoscenza condiviso. Nel caso specifico di Uomo senza meta, il tempo trascorso fra la prova aperta e l’ultima fase di riallestimento, mi ha permesso di ritornare sul lavoro con delle idee più precise. Ovviamente ci sono i condizionamenti produttivi e in questo caso avere un teatro che mi sostiene fa la differenza.

Hai lavorato molto all’estero e sei venuto in contatto con diversi sistemi produttivi: c’è una buona pratica che hai riscontrato in altri Paesi e che, secondo te, il sistema teatrale italiano dovrebbe acquisire?

I problemi che riscontro qui, spesso li ritrovo anche all’estero, anche in grosse realtà. Certi tipi di limiti esistono dappertutto, però c’è una differenza enorme: le risorse economiche e i mezzi messi a disposizione. Questi sono frutto di un disegno culturale che parte dall’istruzione e prosegue nel rapporto della società col teatro, che ha una funzione riconosciuta.

Fino a una settimana fa avremmo dovuto far spettacolo per trecentoventiquattro persone a sera, adesso per duecento. Quanto ancora potrà reggere il teatro, già fragile, in quest’ottica di produttivismo? Diversamente, una politica culturale costante nel tempo che miri a fare un lavoro sulla società, genera un sistema produttivo virtuoso, seppur con dei limiti, che prevede un certo tipo di impatto, non di efficienza.

Pietro, il protagonista, è l’uomo senza meta? Qual è la nostra meta? Verso dove stiamo andando?

In realtà Pietro ha una meta, almeno apparentemente, perché ha una potenzialità che gli è data dal denaro e che gli permette di raggiungere qualunque cosa. Ma quando raggiunge la sua meta, si ammala. Sono più le persone che lo circondano a non avere una meta. Diciamo che ha la U maiuscola, l’Uomo senza meta. Quanto a noi, non so dove stiamo andando. Usando la biologia, che pure per i miei studi mi appartiene, direi verso il nuovo stadio evolutivo. Il problema è che è difficile dire come sarà. Nella Repubblica della felicità c’è un monologo del personaggio della nonna, in cui la signora dice: «mi sono detta che stiamo andando verso un tipo di umanità che potrebbe non essere umana affatto». Probabilmente si tratta di un’evoluzione, non tanto in termini biologici, quanto in termini antropologici. Continuo a essere pessimista. Ma Pasolini direbbe che il pessimismo conduce all’attivismo.  

Photo by Guido Mencari

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