Chiaro, lampante e terribile aleggia il pensiero che ci troviamo alla fine di un mondo e all’inizio di non si sa bene cosa.
Al Globe Theatre un ultimo saluto a Gigi Proietti, frattanto con discrezione si spegne Ferdinando Taviani. Escono di scena un attore straordinario e uno studioso – molto più che un semplice studioso – dalla mente fine. Un uomo che ha vissuto in palcoscenico, e un altro che ha dedicato al teatro il suo sguardo, il suo pensiero.
Quando lasciano questa terra delle persone che pareva vestissero i panni dell’immortalità, ci si sente abbandonati, spaesati (parola cara al professor Taviani!). Eppure, proprio allora, tocca restare lucidi.
L’Italia intera ha reso omaggio all’attore, forse l’ultimo di una tradizione tipicamente nostrana, dal talento indescrivibile quale fu e resterà Gigi Proietti. La scomparsa di Proietti è un dolore vero per chi è cresciuto tra le risate che il suo personaggio ha regalato a intere generazioni, una perdita grande per chi ama, frequenta, vive il teatro. Eppure, volendo guardare con un po’ di distacco…
La sua dipartita ha immediatamente modificato i palinsesti televisivi, ha acceso videoproiettori al Campidoglio, i social si sono riempiti di fotografie e post, si è persino riaperto un teatro. E intanto, da più di una settimana i teatri sono chiusi, di nuovo. Da mesi i lavoratori dello spettacolo attendono un sussidio che non arriva a cui si aggiunge la promessa di ulteriori ristori. Da oltre una settimana, sotto gli occhi di tutti e di nessuno, davanti alle porte del Teatro Argentina a Roma stanno seduti degli artisti che non sanno più come dire che sono all’asfissia.
Da un lato, dunque, tanto dolore, reale e sacrosanto, per la scomparsa di un uomo di teatro, dall’altro si celebrano, deserti e silenziosi, i funerali, seppure figurati, di decine e decine di altri uomini di teatro. Eppure l’arte che ha reso grande Proietti è la stessa che nutre altre migliaia di persone, che accende i sogni di giovani che aspirano a fare di quest’arte un terreno di studio e di ricerca, un mestiere, un «viaggio personale», direbbe Taviani. Ma si sa, in Italia il passato è sempre stato più considerato del futuro, in Italia c’è stato il cinema Neorealista, Totò, Eduardo, Roma caput mundi: abbiamo molto di cui vantarci. Potremmo vivere di cultura, si sa. Potremmo. E invece una enorme quantità di teatranti vive al limite, spesso ha un secondo lavoro e, per di più, si sente in colpa per non essere stata in grado di raccogliere tanta eredità. Tutto questo non importa a nessuno, pare. Per fare il più banale degli esempi, il ministro Dario Franceschini dice di aver chiesto alla Rai di mandare il teatro in televisione e abbiamo ben visto che i palinsesti si possono modificare dalla sera alla mattina. Ma no. Nulla.
Siamo alla fine di un’era, forse, certamente siamo nel bel mezzo di una trasformazione, non abbiamo idea di quanto tempo sarà effettivamente necessario prima di poter uscire senza indossare una mascherina, continuano a ripeterci che dobbiamo cambiare modo di vivere, di relazionarci e, intanto, non riusciamo a cambiare modo di pensare. Si è persa ogni forma di visione, l’incertezza del presente rischia di rendere la trasformazione una brutale selezione. La cosa che ci riesce meglio è piangere i morti, l’unica circostanza in cui mostriamo ancora un interesse per la vita – vita, non sopravvivenza – che andandosene ci costringe ad amarla, sempre per ciò che fu e mai per ciò che sarà. In fondo la nostalgia ha un che di rasserenante, di reazionario persino, placa l’ansia, azzera la volontà.