78 teatri francesi occupati. Le ragioni della protesta

Il Premier francese Jean Castex ha invitato i lavoratori dello spettacolo francesi a «fare una passeggiata in Germania, in Italia, per vedere quanto vengono risarciti».

È confortante – non lo è affatto! – sapere che il Primo Ministro francese abbia compassione di noi. Ed è confortante – stavolta davvero – che questa uscita di Castex abbia acceso ulteriormente gli animi dei lavoratori e delle lavoratrici “intermittenti”, che oggi occupano più di settanta teatri in tutto il territorio francese.

Dopo settimane di richieste inascoltate, la CGT spectacle (un’organizzazione sindacale, direi non proprio equivalente alla CGIL SLC) il 4 marzo è entrata al Théâtre de l’Odéon–Théâtre de l’Europe. Da lì, a catena, La Colline, Strasburgo, Lille, Caen, Marseille, Nive, Limoges, Dijon, Lyon… Uno dopo l’altro, fino a settantotto.

Settantotto teatri occupati.

Per capire meglio quale sia la situazione ci siamo confrontati con Gabriele Sofia, docente di Istituzioni di regia, Tecniche d’attore e altri corsi, all’Università Grenoble Alpes, e Valentina Fago, performer e attivista italiana stabilitasi in Francia da molti anni, direttrice artistica della Classe Prépa Egalité des chances de la MC93/Bobigny, un corso per attori professionisti dedicato a chi fa parte di una fascia sociale non abbiente (una cosa che noi facciamo fatica anche solo a immaginare, insomma). Fago, corre obbligo di precisare, ci parla anche a nome di Amandine Thiriet, cantante e militante del collettivo Matermittentes, che si batte in particolar modo per i diritti delle intermittenti-madri.

Fago ci parla di «convergenza delle lotte», quanto sottolinea che a fianco dei sindacati milita la Coordination des intermittents et précaires (CIP), un movimento nato nel 2003 per contestare una riforma che allora minacciava l’esistenza dei lavoratori intermittenti; non è un Ente, ma un’organizzazione orizzontale che da allora non ha mai abbassato l’attenzione sui problemi del settore in Francia. E insieme ci dice dei «giovani contagiati dalla fiamma politica», quando le chiedo come mai alle occupazioni si siano uniti studenti e studentesse dei Conservatoires (una rete fittissima di scuole di teatro pubbliche a vari livelli), loro, che pure non sono ancora propriamente dei “lavoratori”. L’onda che agita il settore dello spettacolo in Francia è dunque complessa, pur nella sua linearità. Cercheremo di fare chiarezza.

L’intermittence, che suscita in noi un misto di ammirazione e invidia,  è un sistema fortemente democratico, basato su un’idea di redistribuzione delle ricchezze: nato nel dopoguerra, dal 1968 permette l’alternanza lavorativa naturale per chiunque lavori nel cinema, nell’audio-visivo e nello spettacolo dal vivo. Per quanto ciò sia vero, «gli intermittenti siamo circa 300mila – dice Fago – di cui circa 150mila percepiscono l’indennizzo. Molti, quindi, non riescono a mettere insieme i requisiti necessari per accedervi».

Occupazione del Théâtre de l’Odéon nel 1968

Il sistema di protezione sociale, per quanto sia saldo, non manca di buchi da sanare. Per questo le rivendicazioni dei manifestanti non riguardano soltanto il settore dello spettacolo in senso stretto, ma anche tutti quegli «intermittents hors spectacle (fuori spettacolo), cioè gli intermittenti che lavorano attorno alla cultura (ristoratori, albergatori, eventi, turismo, servizi di pulizia, ecc.), e che, contrariamente a noi intermittenti dello spettacolo, non hanno avuto “l’anno bianco”, né nessun’altra modalità di prolungamento dei loro diritti alla disoccupazione», precisa l’attivista. L’anno bianco è il provvedimento emergenziale che ha concesso, durante la pandemia, a tutti i lavoratori già indennizzati un prolungamento fino al 31 agosto 2021, pur senza il raggiungimento (ovviamente) delle 507 ore lavorative necessarie nell’anno precedente. Il punto è che i teatri sono chiusi, non riapriranno verosimilmente tanto presto, e dunque i manifestanti richiedono una ulteriore proroga e un’estensione agli intermittenti “fuori spettacolo”. Nell’articolata narrazione dei fatti, un particolare ci drizza le antenne, suscitando una sottile amarezza: durante il lockdown di marzo 2020 il settore si è fermato nella sua totalità, l’ultimo dei teatranti e un divo del cinema hanno condiviso le stesse angosce e hanno ottenuto, anche grazie alla pressione dell’industria cinematografica, il già detto “anno bianco”. Oggi i lockdown continuano, seppur in forma più leggera, ma non tutto è come un anno fa. In Francia come in Italia, i set cinematografici si sono riattivati, quella macchina produttrice di serieTV e film (e di soldi) si è rimessa in moto. Alle proteste si è sottratta, dunque, la voce di buona parte dei lavoratori del cinema, e si è fatta più faticosa la battaglia per aver ascolto da parte del Governo. Governo che, intanto, tace. Il silenzio dei Governi ci rende tutti fratelli. Come si può tacere davanti  a settantotto teatri occupati in venti giorni? Si può, se «si ritiene che siano luoghi non essenziali», dice il professor Sofia. «Per questo – continua – “Siamo essenziali”, è diventato uno slogan ricorrente anche tra gli studenti manifestanti. La loro formazione dipende sostanzialmente dai luoghi di cultura, ancor prima che la loro futura professione». Per combattere la miopia a cui tendono i politici, gli studenti manifestano non per indennizzi, ma perché la politica agisca (come dovrebbe) per il futuro, e il futuro è di tutti, non solo di chi lavora oggi.

Le occupazioni sono pacifiche, non bloccano servizi, per questo sono decisamente tollerate. Ogni teatro occupato fa assemblee pubbliche, le Agorà, durante le quali chiunque può chiedere di intervenire, l’intera rete organizza riunioni di feedback e confronto quasi quotidianamente. Pur senza braccio di ferro, ogni giorno nuovi luoghi di cultura di uniscono alla cordata.

Chiedono l’abrogazione della riforma in vigore dal 30 giugno 2021 dell’Assurance-Chômage (un’assicurazione generale di disoccupazione in cui rientra anche, ma non solo, l’intermittence), questo rende la loro protesta un fatto di tutti, non solo del settore cultura; il prolungamento e l’estensione dell’anno bianco; la riapertura previo confronto dei Ministeri competenti con un Consiglio Nazionale delle Professioni dello Spettacolo; misure per tutte le “casse speciali” da cui si ricavano congedi pagati, pensioni, formazioni retribuite, medicina del lavoro.

E non solo.

Questa ondata si è fermata al confine, l’Italia guarda, commenta, si lamenta. «Si costerna, s’indigna, si impegna, poi getta la spugna con gran dignità»?

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