«Come è difficile fare teatro in prima persona oggi», scriveva Roberto De Monticelli nel 1979. E come è difficile fare teatro in prima persona, anche oggi.
Si sono appena conclusi i cinque giorni di occupazione del Silvano Toti Globe Theatre di Roma. Certo è presto per tirare le somme, ma è sempre tempo di fare riflessioni. L’iniziativa, totalmente priva di qualsivoglia forma di violenza, è partita da una rete di collettivi: Il Campo Innocente, Presidi Culturali Permanenti Roma, Autorganizzat_ Spettacolo Roma, Mujeres nel Teatro, Professionist_ Spettacolo e Cultura Emergenza Continua, CLAP Camere del Lavoro Autonomo e Precario, R.i.s.p. Rete Intersindacale Spettacolo e Cultura, Arci di Roma.
Come mai proprio il Globe? L’interrogativo, legittimo, è il punto da cui la protesta parte e si divide. Parte dal fatto che il Globe sia una struttura che compete all’amministrazione del Teatro di Roma, ed essendo all’aperto è anche a minor rischio Covid. Si divide perché essendo gestita da anni – praticamente dacché esiste – da privati, nello specifico da Politeama s.r.l., la struttura non solo non è “percepita” come pubblica, ma ha una storia solida e virtuosa portata avanti con soddisfazione dei lavoratori e dei fruitori, dalla direzione artistica di Gigi Proietti, fin quando, purtroppo, ci ha lasciati. E ulteriormente si divide la strada, al trivio (che ricorda edipici misfatti) stanno anche i lavoratori e le lavoratrici impegnati nella stagione estiva del teatro di Villa Borghese, terrorizzati, in qualche caso furiosi, all’idea di poter perdere gli spettacoli. Un rischio fin da subito assimilabile allo zero, dal momento che l’occupazione è stata dichiarata per soli cinque giorni, dal 14 al 19 aprile.
Da molti mesi, lavoratori e lavoratrici dello spettacolo dal vivo chiedono attenzione, non per capriccio, ma perché la pandemia ha chiarito, laddove vi fossero dubbi, che il comparto è al collasso. L’azione è stata simbolica, come se un atto potesse rifare il mondo, «Remake the Globe», dicono, in un gioco di parole. Un ennesimo tentativo di accendere la luce: «A noi gli occhi, please», si leggeva su uno striscione sulla facciata, e la citazione di Proietti non è parsa solo come un prestito, ma anche come segnale di rispetto nei confronti del luogo. Almeno uno sguardo è arrivato, da parte di chi si sperava e cioè il Ministro della Cultura del nuovo Governo – ma non è nuovo il ministro –, Dario Franceschini che ha preso parte a un’assemblea pubblica e si è detto rappresentante e non controparte di questa lotta, e si è reso disponibile a discutere le istanze della categoria a un tavolo interministeriale fissato per il 22 aprile con il ministero del Lavoro. In ogni angolo del teatro si sono portate avanti discussioni sulle criticità dei contratti, sul divario di genere, sulla necessità di un reddito di discontinuità, sul lavoro “grigio” – perché non è detto che sia nero, ma non è regolato – dei formatori a vari livelli e in vari contesti, sulla distribuzione di risorse e spazi pubblici. Un confronto di esperienze, un germogliare di proposte. Si spera fioriscano le azioni, quelle legislative. Intanto sono state stabilite nuove aperture, dal 26 aprile sarà di nuovo possibile tornare a fare spettacolo (oltre che prendere un caffè al bar e pranzare al ristorante), ma le condizioni devono ancora essere chiarite. E quali che siano, le aperture porranno nuove questioni non semplici, sul pregresso e sul da fare, e in ogni caso non metteranno fine allo stato d’allarme.
I collettivi che hanno promosso l’occupazione hanno mantenuto un confronto continuo con i presidi permanenti al Teatro Mercadante di Napoli e al Piccolo Teatro di Milano, dal momento che le città sono diverse, diverse sono le realtà, ma uguale per tutti è la lotta.