Foto di copertina Claudia Pajewski
Era stato già un sussulto vedere online le luci accese dei teatri, per iniziativa di UNITA il 22 febbraio. Ma è stata una gioia vedere le porte del Teatro Argentina di Roma spalancate, per il nuovo inizio del 3 maggio. Una sensazione, nell’attesa di entrare, come di “spaesamento”, e un pensiero, va da sé, a Nando Taviani. All’ingresso uno striscione rosso, in mano lo stringono i lavoratori e le lavoratrici dello spettacolo di Autorganizzat_ Spettacolo Roma, tra quelli che hanno “occupato” il Globe Theatre lo scorso aprile. «Vogliamo tutto», c’è scritto. La Metamorfosi, dice invece la locandina appesa di fianco, e l’accostamento suona non male, non è poi così diverso il senso, quello letterale se non altro: il cambiamento è ciò che chiedono, un «tutto» diverso dal tutto di prima, e non è una protesta, questo loro stare sulla soglia, ma un memento, perché le riaperture, che sono uno spiraglio, un segnale di vita, non lascino in asso i progetti (e le proposte di legge, soprattutto) per un cambiamento, non più eludibile, del sistema teatrale e – diciamolo – della politica culturale del nostro Paese.
La sala è ancora piena di posti non agibili, un brusio di attesa, di trepidazione pure, ci si ritrova come dopo un lungo… Isolamento. Sul palcoscenico prima dell’inizio, «vi è mancato il teatro?», chiedono tre rappresentanti dei lavoratori del settore. La risposta evidente è la sala piena – nei limiti imposti, chiaramente –, le persone che arrivano fino all’ultimo ordine di palchetti. Una dichiarazione di intenti e una richiesta di lotta comune, perché il teatro è la vita, certo, di chi lo fa, ma non esisterebbe se non ci fosse chi lo condivide da spettatore, da cittadino. La comunità ha risposto, essendoci (mancava il Ministro della Cultura, però).
Ad apertura di sipario gli attori entrano dalla platea, indossano le mascherine, raggiunto il proscenio dismettono questo segno distintivo della realtà ancora segnata dal virus. Un buffo gioco di ruolo: il pubblico mascherato, gli attori a viso aperto. Giorgio Barberio Corsetti, direttore artistico del Teatro di Roma e regista di questa Metamorfosi, sceglie Fanz Kafka, dunque, per raccontare «una trasformazione fisica, che impatta i sensi, il linguaggio e la materia stessa, condannando al distacco dal mondo chi la subisce», dice il programma di sala. La trasformazione, suo malgrado, di Gregorio Samsa in un insetto gigantesco ci apre a un mondo paradossale, vestito però di un quotidiano grigiore – un interno grigio è la scena realizzata da Massimo Troncanetti – diviso in due: “l’immondo” della stanza di Gregorio, prigione dell’uomo e rifugio dell’insetto, e il “mondo” delle relazioni, intime o passeggere, di familiari, domestiche, ospiti. Il tono asseconda fin da subito questo paradosso, usa l’alternanza tra prima e terza persona per accentuare la sfasatura tra il pensiero e l’azione, tra la parola e il corpo. E a dare corpo all’uomo-insetto è, bravo, Michelangelo Dalisi, ossuto, allungato, che dà alla metamorfosi una forma, una postura, e dita che si muovono nervose, perché lo si intraveda, l’insetto, e non soltanto lo si immagini. Attorno a lui, figurine che si muovono fuori e dentro la sua mente, Roberto Rustioni, Sara Putignano, Anna Chiara Colombo, Giovanni Prosperi, Francesca Astrei, Dario Caccuri, brillanti ed efficaci compagni di scena e di gioco.
Il precipitare delle relazioni, lo sconcerto e l’orrore dei familiari che non riconoscono più il figlio, il fratello, il terrore del corpo dell’altro – di cui purtroppo ogni giorno facciamo esperienza –, l’inesorabile isolamento di Gregorio, dietro ai mobili o sotto al canapè, tutto si manifesta in questa cornice grottesca, a cui però, proprio alla luce di questo grottesco, manca forse, mi pare, un po’ di spietatezza, di tragedia. Tragedia che esplode senza preavviso sul finale, quando Samsa sul punto di rinunciare a se stesso e alla sua identità, rivolge uno sguardo alla madre, e chiuso nell’immondo si lascia morire, liberando i suoi dall’«eterno tormento» che da bestia è diventato.
Riconosciamo solo ciò che ci assomiglia. E anche ciò che si ama, se muta le sue fattezza, fa spavento e orrore. Al trauma della morte di Gregorio, Kafka accosta, senza esplicitare un giudizio, la rimozione da parte dei suoi familiari, che si concedono un giorno di libera uscita, e si osservano tra loro, stupiti di una bellezza ritrovata, di una freschezza che avevano accantonato per “sopportare” Gregorio. «La vita finisce dove comincia», diceva Pasolini, dopo l’accecamento di Edipo.
Gli applausi sono stati scroscianti, calorosi, a festa. Forse, mi dico, la fragilità così terribilmente palese dell’esistenza, fa sì che la vita non basti a se stessa, che servano dei signori in cappotto e cappello che raccontano di Kafka e di altre storie, che ci dicano delle infinite possibilità dell’umano, del mondo. Il 25 ottobre, a poche ore dalla ri-chiusura, sullo stesso palco, Francesco Colella diceva: «Non chiudiamo la finestra sui nostri sogni». Ed eccoci qui. Dove eravamo rimasti.
La metamorfosi
di Franz Kafka
Mondadori Libri, traduzione di Ervino Pocar
adattamento e regia Giorgio Barberio Corsetti
con Michelangelo Dalisi, Roberto Rustioni, Sara Putignano
Anna Chiara Colombo, Giovanni Prosperi, Francesca Astrei, Dario Caccuri
vocal coaching e musiche Massimo Sigillò Massara
scene Massimo Troncanetti
costumi Francesco Esposito
luci Marco Giusti
aiuto regia Giacomo Bisordi
assistente alla regia Tommaso Capodanno
assistente scenografa Alessandra Solimene
stagista di drammaturgia Fulvia Cipollari
stagista di regia Matteo Prosperi
foto di scena Claudia Pajewski
produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale
orari spettacolo
ore 19.00
domenica ore 17.00
durata 1 ora e 25′