Programmare danza per “servire” sia gli artisti che il pubblico. Intervista a Valentina Marini, direttrice artistica di Fuori Programma

Operatrice culturale, Valentina Marini ha iniziato la sua carriera alla fine degli anni Novanta a Verona. Oggi, insieme al coreografo Mauro Astolfi, dirige la compagnia Spellbound Contemporary Ballet, è fondatrice del progetto European Dance Alliance, agenzia di servizi per lo spettacolo, è uno dei tre co-direttori del Teatro Biblioteca Quarticciolo, è presidente dell’AIDAP nell’ambito di Federazione AGIS e molto altro. Negli ultimi anni, ha contribuito alla creazione del Festival internazionale di danza Fuori programma, di cui è direttrice artistica. Professionista esperta sia nell’ambito della produzione che in quello della programmazione, ci ha parlato della qualità delle relazioni, sia umane che geografiche, che occorre intessere per lavorare in maniera efficace.

l festival Fuori programma è nato nel 2016; da quali esigenze è partito il progetto? E cosa racchiude questo titolo?

La mia prima esperienza di programmazione risale al 1998, a Verona, per cui il mio battesimo professionale è avvenuto in un ambito festivaliero. La programmazione di un festival estivo di danza è un’iniziativa che mi riporta alle origini, e ho sempre avuto il desiderio di rifondare a Roma un festival puro di danza, che potesse ospitare una serie di idee e di progettualità. Fuori programma è nato al Teatro Vascello, da un’idea di Marco Ciuti, al quale va anche il merito di aver concepito il titolo del progetto. È stata una strana coincidenza, una strana affinità elettiva che ci ha fatto incrociare. Al Teatro Vascello mi unisce una lunga storia di collaborazioni, nate ovviamente su altri piani. Nel corso del secondo anno di Fuori programma ci siamo trovati a incrociare reciproche esigenze e desideri, e a immaginare di lavorare al festival a quattro mani. Sin da subito, il mio ruolo è stato di sostegno sul piano artistico, poiché viaggiando avevo possibilità di incontrare e segnalare programmi, progetti e artisti; Marco Ciuti e Manuela Kustermann, in qualità di rappresentanti del Teatro Vascello, costituivano il fronte romano di titolarità dello spazio di ospitalità.

Gestire un festival, come gestire tutto quello che ha a che fare con le programmazioni, è molto complesso e anche molto oneroso. La danza non è inserita nella linea principale di finanziamento per cui il Teatro Vascello è sostenuto, e tutte le attività svolte sul fronte della danza nascono da uno spirito autentico di slancio da parte di Ciuti e di Kustermann, avulso da fini di natura economica e di finanziamenti pubblici, che spesso non riconoscono loro questa parte di attività. Quando il festival per il Teatro Vascello ha smesso di risultare sostenibile sul piano economico, anche a causa del mancato rientro nelle programmazioni dell’Estate Romana, ho scelto di prenderlo in carico autonomamente. Per questioni logistiche e pratiche, il Vascello ha successivamente riscontrato la necessità di sviluppare diversamente la programmazione estiva, motivo per cui ho cercato ospitalità in altri luoghi. La delocalizzazione del festival dal Teatro Vascello ad altre sedi – che all’inizio è stata un’esigenza dettata dall’indisponibilità del teatro, quasi un trauma, considerando l’amore che nutro nei confronti del palco del Vascello – mi ha aperto tuttavia una nuova finestra di possibilità programmatiche. Quella che inizialmente sembrava una soluzione a un problema si è trasformata in un’opportunità, perché l’idea di delocalizzare e di lavorare in una dimensione diversa ha reso possibili altre strade che altrimenti non sarebbe stato facile percorrere.

La pandemia ha chiaramente comportato uno shock addizionale, con l’obbligo della dimensione all’aperto sempre più aperto, dell’esterno sempre più imprescindibile per sopperire alle esigenze igienico-sanitarie. I coprifuochi e le varie condizioni che l’anno scorso hanno reso possibile lo svolgimento del festival, ma con un affanno inenarrabile, con una programmazione reinventata in una settimana, ci ha condotti alla possibilità di lavorare nell’arena del Teatro India, al tramonto. Occasione che alla fine si è rivelata così stimolante sul piano estetico, che per la programmazione di quest’anno non ho saputo rinunciarvi. Paradossalmente, dunque, forse mi troverò in crisi quando si tornerà al chiuso, sebbene l’aperto comporti una serie di incognite e preoccupazioni legate alle questioni climatiche, alle previsioni metereologiche. Con l’aggravante della difficoltà nel trovare spettacoli che si prestino a una visione circolare, con il pubblico disposto su quattro lati, e a una fruizione al tramonto, senza necessità di supporti illuminotecnici determinanti per la resa performativa. Tuttavia, devo riconosce che la dimensione all’aperto consente un altro tipo di bellezza.

In un percorso disseminato di inciampi e risalite, di tangenti e deviazioni, è stato sorprendente scoprire nuove opportunità e nuovi luoghi, e soprattutto abbracciare collaborazioni molto diverse tra loro, che mi hanno permesso di traghettare uno stesso pubblico dagli spazi del V municipio, primo fra tutti il Teatro Biblioteca Quarticciolo, struttura cardine nell’articolazione e realizzazione del Festival, ma anche il Parco dell’Alessandrino (nel mezzo del parco c’è un’area con un ulivo al centro che mi piace chiamare il mio Getsemani), a uno spazio istituzionale come quello del Teatro India, che mi ha dato un’accoglienza straordinaria e dove si lavora molto bene. I vari eventi inseriti nella programmazione di quest’anno sono complementari tra loro. È tutto talmente fuori programma che il titolo non è mai stato così azzeccato, l’intuizione di Marco Ciuti è stata profetica.

Guardando all’edizione di quest’anno, il sottotitolo «La geografia delle relazioni» a cosa fa riferimento?

Il credito di questo sottotitolo va a Stefania Di Paolo, titolare del canale online e fondatrice del progetto TalkwithDance. Quando mi ha sentito raccontare l’edizione del festival di quest’anno, ha detto: «È una geografia delle relazioni». Questa proposta involontaria mi è sembrata perfetta per il sottotitolo del festival, perché rende un’immagine composita, stratificata e ramificata di come dovrebbe essere fatto il nostro lavoro, che si nutre di relazioni umane e geografiche. Certe progettualità sono sostenibili solo se si attivano delle reti umane e professionali, tali per cui si lavora in relazione. Si tratta di un aspetto che spesso è in contraddizione con quei festival che nascono con il principio di esclusività rispetto alle proposte e alle azioni nei territori, normalmente considerati delle vetrine di novità e prime assolute: luoghi in cui prevale come tratto determinante l’esclusività di artisti e spettacoli. Trovo molto più interessante ribaltare quest’immagine, pensando a una programmazione che invece possa essere davvero un albero ramificato, in cui i festival possano essere dei vettori, dei canali che mettano in relazione i luoghi, gli artisti, altri festival, e facciano da connettori caricandosi anche della responsabilità di cavalcare il nuovo, cosa che un festival dovrebbe sempre fare per distinguersi da una stagione ordinaria, e attivando tutto quello che si può attivare sul piano delle relazioni, su più livelli.

Quest’anno abbiamo avuto più tempo per costruire il programma. Abbiamo cercato di lavorare meglio su questa stratificazione di sguardi differenti, di collaborazioni, ma anche sulla diversità di target e di accompagno al percorso del festival. È interessante vedere come le varie relazioni mobili che seguono il programma con occhi diversi, con target di pubblico diversi anche per età, possano ricevere una proposta differenziata, dai processi puri, come nel caso delle restituzioni delle residenze che normalmente non sono oggetto di programma festivaliero, a progetti finiti, a spettacoli chiusi. Oppure la riproposta di progetti, come nel caso di Mad. Museo antropologico del danzatore di Michela Lucenti. Anche questa è un’idea che a mio parere deve essere rivista: alcuni lavori non sono solo degli spettacoli, ma costituiscono progetti con una storia, una vita, e possono anche essere riproposti attraversandoli in modo diverso, dando continuità ai rapporti e attivando una diversa relazione con il pubblico.

Dal programma del festival emerge nettamente una rete ramificata sulla città di Roma: i territori toccati dalla programmazione sono dislocati e periferici, ma per la capitale costituiscono anche zone “calde”, particolarmente prolifiche. Qual è la valenza culturale di creare una rete così fitta?

Una rete del genere dona a chi la attraversa, sia in qualità di spettatore che in qualità di artista, la possibilità di avere immediatamente uno sguardo che è aperto su più piani. Mi diverte molto la possibilità in alcune stagioni di condividere alcuni artisti con altri festival: è interessante osservare come lo stesso progetto può configurarsi diversamente in territori differenti, o come il pubblico sia obbligato a visualizzare una mappatura sapendo che uno stesso artista partecipa a vari festival. Se lo spettatore si confronta con un programma stratificato, che mette i processi sullo stesso piano dei lavori finiti, è costretto a porsi delle domande su ciò che gravita intorno allo spettacolo finito che vede in palcoscenico. Per me è interessante scardinare i formati chiusi, per immaginare di attraversare le progettualità con curiosità e con il desiderio di capire, leggere o vivere quello che ad essa sta accanto, prima, dopo, o davanti. Il valore di questa visione immaginifica è fondamentale: tutto si fa insieme. Mi immagino una grande cordata ideale di soggetti che si tengono per mano, e la produzione diviene collettiva.

Il programma del festival include sia artisti noti, che artisti emergenti, soprattutto tramite le residenze. Pensi che inserire gruppi meno conosciuti in un festival che ha nomi di richiamo possa rappresentare un circolo virtuoso? Da dove proviene l’idea di mescolare coreografi e danzatori che si trovano a momenti della loro carriera così diversi?

Sin dalle mie prime esperienze di programmazione, nella città di Verona alla fine degli anni Novanta, e poi per vent’anni, mi sono occupata di produzione, ed ho pertanto fatto esperienza diretta delle difficoltà che gli artisti e le produzioni incontrano e su cui inciampano lungo il percorso, soprattutto nella fase iniziale, in cui occorre capire dove e come collocarsi. Ho sempre contrastato l’idea che ci siano delle scatole chiuse e dei livelli prestabiliti dove si può o non si può stare. La responsabilità di chi programma è anche quella di dare delle occasioni: programmare solo il mainstream è troppo facile. Se ci si concentra sulla qualità dei progetti, la programmazione diventa più interessante: anche gli artisti blasonati possono proporre opere che non sono dei capolavori, come è normale che sia, poiché la produzione artistica non è fatta con lo stampino. È giusto che ci siano delle occasioni di visibilità e di spinta. In un mondo ideale, il programmatore ha la responsabilità di “servire” sia gli artisti che il pubblico, con il quale deve aver instaurato un rapporto fidelizzato, quasi familiare.

Quello del programmatore è un ruolo di grande responsabilità; questo non vuol dire che debba nascondersi dietro a una programmazione sicura, proprio per non assumersi questa responsabilità, ma al contrario ha necessariamente il compito di cavalcare questa responsabilità, da cui derivano l’onere e l’obbligo di una profonda conoscenza della scena e di un continuo aggiornamento. Il programmatore ha l’obbligo statutario di rischiare, che non vuol dire programmare allo sbaraglio, ma dare opportunità, scommettere sugli artisti, permettere agli artisti di mescolarsi tra di loro, usare e creare il terreno per il nuovo. Se non si riattivano queste questi dialoghi sul fronte del rischio programmatico e della sperimentazione di nuove possibilità tra artisti e programmatori, le programmazioni si appiattiranno. La figura del programmatore deve costituire il trait d’union tra due comunità: da un lato la comunità degli artisti, dall’altro quella del pubblico. Questa cordata non si deve mai spezzare: solo se ci sono queste mani che si tendono, l’atto di fiducia diventa circolare e il fatto scenico trova corrispondenza.

Quale tipo di pubblico ti aspetti ai vari appuntamenti?

Quella del pubblico è sempre un’incognita. Il mio sogno è quello di smettere di parlare del pubblico della danza come se fosse un ghetto chiuso e isolato, da proteggere come i panda. Dovrebbe esserci il pubblico tutto: la gente, gli operatori, gli artisti quando vanno a vedere altri artisti. È uno status, il pubblico, non un’identificazione di genere. Noi invece lo viviamo sempre come un’entità astratta che viene da Marte: il Pubblico. Mi interessa e mi piace immaginare un pubblico misto, a parte i soliti addetti ai lavori che fa piacere ricevere, anche un pubblico intergenerazionale. Il pubblico è qualsiasi pubblico. Non riesco a immaginare una limitazione, sarebbe veramente riduttivo. È anche gratificante individuare uno zoccolo duro di persone che seguono e che riconosci nel tempo, e il pubblico di passaggio, quello che segue annata per annata.

Sicuramente sarebbe utile riuscire ad avere un pubblico internazionale. Roma è una città turistica e costituisce pertanto un potenziale immenso. Soprattutto nella stagione estiva, tutte le capitali europee si riempiono e si animano di offerte culturali di ogni tipo.

La scelta degli artisti che hai selezionato nella programmazione, come è avvenuta?

Non è stato facile; ci sono numerosi paletti, non sempre si riesce a mettere a punto il programma dei sogni, perché ci si scontra con problematiche di budget e di disponibilità. In questo caso, data la morfologia anomala del festival, con fruizione quadrata, circolare, al tramonto, siamo stati costretti a escludere l’allestimento di spettacoli che necessitassero di buio completo e luci artificiali, o concepiti per una visione solo frontale. La cosa che mi interessa di più è tentare di mescolare: lavori più solidi di artisti già maturi con progetti di artisti giovani ma interessanti; lavori nazionali e internazionali, ecc. È quello che poi dovrebbe sempre fare un festival: evitare la declinazione forzata da una parte o dall’altra, per farsi portatore di una ventata di novità, contribuendo alla circolazione di qualcosa che altrimenti non vedresti passare da quella città o in quel contesto.

Inoltre, mi piace concentrarmi su una “scala media” di produzione. Roma offre già tantissimo sul piano degli artisti acclamati, basti pensare alla programmazione del Festival Romaeropa, che non sarebbe utile replicare senza averne né i mezzi né le strutture. C’è invece una fascia di produzione di mezzo, che ha molto da dire e che difficilmente trova collocazione.

Quali sono le difficoltà e i rischi nel programmare un festival di danza in tempi di pandemia?

Le difficoltà ci sono sempre, con o senza Covid-19. Sicuramente l’anno scorso è stato l’anno dell’incoscienza: al primo momento di riapertura, ci siamo lanciati nella programmazione; nessuno si immaginava che successivamente le condizioni pandemiche sarebbero precipitate di nuovo. Quest’anno invece c’è maggior cautela, e la preoccupazione che possano esserci intoppi a metà dell’opera. I rischi sono tantissimi, soprattutto se si pensa agli incroci di mobilità degli artisti, al fatto che ogni minuto può esserci un artista positivo, o un artista con la febbre a 37.6 che quindi non può entrare in palcoscenico. Tuttavia, il serrato programma di vaccinazione e di tamponamenti contiene questo tipo di rischi.

La cosa che più mi spaventa è il fatto che il pubblico potesse disamorarsi. È quello il vero rischio per il settore dello spettacolo dal vivo: che si perda l’abitudine a stare insieme, a sedersi vicini, a discutere dello spettacolo. La possibilità di sostituire le attività culturali con iniziative online esclude tutti i prodotti che non sono nati per essere fruiti in streaming; soprattutto, la scena contemporanea non viene valorizzata da una visione online. Un conto è vedere un’opera, un conto è vedere un lavoro che nasce con un’altra dimensione di visione. Ma al di là di questa problematica, la cosa a cui tengo di più è la discussione che scaturisce da una visione. Discussione che viene inevitabilmente meno se sei da solo, a casa, davanti a un computer. Perdere quel dibattito costruttivo, quel confronto sano, anche scontro talvolta, uscendo da teatro, pensare di dover rinunciare a quella discussione in tutte le direzioni, positive e negative, quello è il vero rischio. La conseguenza diretta è che il dibattito rispetto alla visione scenica si atrofizzi. Ovviamente tutto quello che accade online non prende minimamente in considerazione questo aspetto.

Se potessi immaginare un mondo ideale, utopico che posto vorresti occupasse la danza nell’assetto culturale del paese? In quali direzioni credi debbano andare le riforme del comparto dal punto di vista normativo, ministeriale, o anche semplicemente di assetto politico culturale?

Mi piacerebbe che ci fosse una svolta epocale, che si superasse l’accezione medievale per cui si guarda alla danza come a una forma di espressione del palcoscenico diversa. La dicotomia danza-teatro è qualcosa che l’Europa ha già superato da molto… l’Italia invece sembra rimasta indietro. Non si tratta di una questione meramente estetica, connessa all’ibridazione dei linguaggi al di là delle caselle di applicazione per i finanziamenti. È soprattutto uno sguardo degli operatori che molto spesso hanno un approccio giudicante rispetto alle forme espressive del palcoscenico perché influenzati da un retaggio culturale, come se esistessero dei ghetti, piuttosto che semplici portatori di un linguaggio scenico. Sicuramente c’è una scarsa cultura della danza intesa in senso ampio. In Italia, tra l’Accademia di danza e l’ente lirico, non siamo stati capaci di collocare nel mezzo una coscienza collettiva rispetto a ciò che è stato creato al livello produttivo negli ultimi settant’anni. Abbattere questa dicotomia permetterebbe ai teatri di programmare per qualità di progetto, e per linea programmatica pura, e non per generi o, peggio, per discipline riconosciute dai finanziamenti ricevuti. Tale sistema non fa che schiacciare il lavoro nella danza, non essendo mai disciplina prevalente. La Francia ha istituito da anni le Case della Danza; in Italia, invece, la danza si ritrova sempre negli avanzi di programmazione della prosa. Il discorso sarebbe molto ampio, ma è necessario partire da uno sguardo onesto rispetto a quello che accade sulla scena. Mi occupo di scena contemporanea, e vorrei che ad essa si guardasse con apertura mentale e con curiosità, come a un ambiente in cui i linguaggi possono ibridarsi senza il problema di doverli catalogare o giudicare in base alla cultura di appartenenza. La possibilità di realizzare Fuori programma in aree o luoghi non convenzionali, non è straordinariamente sovversivo. Ma il tentativo è proprio quello di avvicinarci a uno sguardo, a una discussione, a una riflessione in cui il contenuto prevalga sul contenitore, e in cui spero un giorno le appartenenze di genere intese in senso di espressione artistica non siano la matrice prevalente.

Credi che la danza e il teatro dovrebbero entrare nelle scuole, nei programmi didattici?

Non voglio fare un discorso campanilista, ma la danza, che riguarda e coinvolge il corpo, attiene a qualcosa che ha una relazione ancestrale con tutte le forme espressive che i bambini iniziano a sviluppare e a percepire sin dalla tenera età. Un’educazione alla conoscenza del proprio corpo e del corpo degli altri è necessaria; la danza non va immaginata solo come tecnicismo, ma come conoscenza, come rapporto con i corpi di tutti. In questo senso, la valenza che ha sulla crescita psicomotoria dei bambini è sottostimata, perché si pensa alla danza come a quella vicenda accademica con i tutù, le punte, ecc. Si dimentica invece tutto il percorso legato alla natura del corpo, così come le possibilità di cura che un certo tipo di relazione con il corpo possono dare e portare. L’eredità di questo periodo storico, che ci costringe a uscire dagli schemi, a realizzare progetti e programmi capaci di superare steccati e rigidità formali, mentali, potrebbe aiutarci a guardare oltre.

Che cos’è per te la danza?

Per me è stata la salvezza. È stata un canale che mi ha permesso di fare, di fantasticare, non soltanto di praticare, ma anche di realizzare progetti diversi. Una volta mi hanno letto la mano e mi hanno detto che tra tutte le varie venature e strade della vita, la danza era quella che le superava tutte. Per me è un sentiero che mi accompagna. La guardo da un lato o dall’altro, non importa, che sia di natura pratica, di programmazione o di produzione, ma c’è sempre. Mi sono innamorata della danza perché mi sono innamorata della mia seconda insegnante di danza; la prima me la aveva fatta detestare, avevo smesso di danzare per questo. La danza mi ha insegnato il valore delle persone nel lavoro che fanno. Noi tutti abbiamo una responsabilità in ciò che facciamo, e io la sento tutta quando programmo un progetto come Fuori programma, mi sento come nel ruolo di un’insegnate: ho la responsabilità di far amare o odiare un progetto a un pubblico. Il desiderio è di conquistare il pubblico per sempre, non di farlo scappare. Ogni tanto ci dimentichiamo il peso di questa responsabilità quando permettiamo o non permettiamo a qualcosa di arrivare in scena. La responsabilità è anche nei confronti degli artisti a cui togliamo delle possibilità.

Credo che la danza sia stata per me e sia per tutti fondamentalmente un canale, ma soprattutto uno strumento per costruire delle comunità. Lavorare con il corpo ti porta necessariamente ad acquisire una confidenza visiva, tattile, di percezione con l’altro e ad abbattere delle barriere. Soprattutto nell’ambito del contemporaneo, la danza è qualcosa che si fa insieme, che presuppone un insieme, non nel senso dell’ensemble in scena, ma come collettività. La vivo come una forma di comunità. Non ho avuto un’adolescenza sfrenata, da un punto di vista della vita sociale. E la danza mi ha dato quel senso di appartenenza a un qualcosa che negli anni della mia adolescenza mi mancava sul piano degli affetti, delle amicizie; mi mancava sempre qualcosa da condividere. La danza mi ha fornito un punto di contatto non necessariamente legato al quartiere o alla nazionalità; l’appartenenza a quell’area, a quella comunità, a quel gruppo di interesse anche sovrannazionale mi ha fatto sentire parte di un qualcosa in cui io mi riconoscevo. Il vantaggio della danza rispetto ad altre forme artistiche, ossia quello di travalicare qualsiasi geografia, mi ha permesso di tessere anche dei rapporti o delle vicinanze emotive, emozionali, di interesse con situazione, con artisti e con comunità che magari avevano dei background totalmente diversi dal mio, ma con i quali c’era quel punto di contatto, c’era quell’elemento in comune, c’era la stessa visione. La danza è stata ed è per me un catalizzatore, mi fa sentire meno sola nell’attraversare la vita. È un vettore, un canale per condividere.

Ho iniziato a fare questo lavoro sul piano della programmazione, non sul piano della produzione, perché quando avevo 18 anni ho deciso di lanciarmi in un’impresa folle all’epoca, in maniera super privata e indipendente per la produzione di un festival a Verona. A guidarmi era la gioia di condividere con il pubblico quello che secondo me, nella mia testa di ragazza, era qualcosa di meraviglioso. Mi sembrava un crimine non condividere la sensazione di gioia e di bellezza che percepivo quando incontravo determinati progetti artistici. La danza è la gioia di poter applaudire per lo stesso sguardo, di potersi emozionare per lo stesso gesto. È un mezzo di educazione alla conoscenza della cultura del corpo, e la tradizione e la storia che i diversi corpi provenienti da diverse geografie portano con sé.

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