Continua il dialogo tra teatro e immagine nella valle dell’Aniene. Abbiamo intervistato le prossime realtà che si esibiranno il 25, 26 e 27 giugno.
Opera Prima (LT) da più di vent’anni ormai lavora con il teatro per bambini, cercando di portare avanti una ricerca sui linguaggi che non sia solo strumentale, ma soprattutto che riesca a stimolare la loro creatività. Agnese d’Apuzzo ci parla de Il colore oltre lo strappo, spettacolo interattivo che sarà presentato oggi in Piazza S. Conca a Gerano.
Come nasce l’idea di questo lavoro e qual è il suo scopo?
Tutto è nato dalla conoscenza con una maestra di scuola dell’infanzia, Cesira Tipaldi, che ci ha fatto scoprire la figura di Hervè Tullet, artista per bambini che in poco tempo è diventato la nostra fonte d’ispirazione. Secondo Tullet ogni bambino grazie alla sua fantasia può creare qualcosa, anche quando sbaglia. L’errore nella sua visione è visto come un’opportunità e non come un qualcosa di negativo.
Questo ci ha colpito molto perché abbiamo sempre combattuto contro quel tipo di educazione che bombarda i bambini con tante attività col solo obiettivo di produrre risultati. Noi ci stacchiamo da questa logica competitiva e preferiamo concentrarci sul percorso piuttosto che sulla meta. A prescindere dall’età bisogna guidare il bambino a saper trasformare l’errore in qualcosa di creativo. Se ad esempio accartoccia il foglio perché non vuole disegnare non dobbiamo pensare subito che è sbagliato. Secondo Tullet anche un foglio increspato è una forma d’espressione, è un qualcosa da cui si può partire, non serve a niente gettarlo via. I bambini hanno bisogno di vedere il colore anche oltre gli strappi.
Possiamo dire dunque che la scoperta di Hervè Tullet è stata l’occasione anche per voi di riflettere sulle opportunità che crea un inciampo, uno strappo. D’altronde non è proprio dagli errori che riusciamo a maturare? A questo punto viene spontaneo chiedervi come avete reagito all’inciampo pandemia. In che modo avete continuato a operare durante questo periodo di congelamento teatrale?
C’è stato un primo momento di sbandamento e paura, specialmente perché lavoriamo in sinergia con realtà scolastiche di tutti i livelli e le scuole sono state chiuse per diversi mesi. Col passare del però abbiamo capito che era importante attivarsi nonostante la situazione e la nostra volontà è stata da subito quella di voler costruire una rete con altre realtà del territorio, per discutere e confrontarci su cosa si potesse fare per sopravvivere in un momento così delicato. Lo scambio tra associazioni diverse è stato molto articolato e devo dire che sono rimasta molto colpita dalla solidarietà messa in campo. Questo fermento ha permesso di creare un tramite tra teatranti e istituzioni politiche. Ovviamente di conseguenza è aumentata anche la considerazione delle persone in merito alle condizioni e alla tutela dei lavoratori dello spettacolo. Si ha la tendenza a pensare al teatro facendo riferimento a grandi produzioni, a realtà strutturate e ben definite. La realtà però è che il teatro vive anche moltissimo in piccole forme che, seppur marginali, sono gestite da professionisti che vivono di questo lavoro e non lo fanno solo come amatori. Insomma lo strappo che abbiamo vissuto stavolta è stato fortissimo, ma facendo rete siamo riusciti a vedere un po’ di colore.
Coinvolgere creativamente i bambini può rivelarsi semplice se si riesce a capire il giusto canale di comunicazione. Nel caso in cui però subentri la timidezza o la vergogna, quali sono le strategie che solitamente utilizzate per farli esprimere liberamente?
Questo discorso è fondamentale perché è attraverso la timidezza che si può lavorare meglio sull’ascolto. Grazie al linguaggio teatrale la comunicazione è più diretta. In teatro praticamente tutto si fonda sul concetto dell’ascoltare. Per questo si cerca di essere aperti a ciò che accade e non di imporre una linea, un’impostazione. I bambini sono imprevedibili, sinceri e senza sovrastrutture, a differenza nostra che siamo contraddittori, pieni di preconcetti e con la presunzione di poter programmare tutto. Possono insegnarci molto, specialmente ai teatranti!
In fondo la timidezza non è un qualcosa di sbagliato, è un modo di essere: un colore, una sensibilità. Con i più timidi cerchiamo di fare un lavoro diverso, nel tempo. L’importante è che si divertano facendo, a prescindere dall’esito finale. Con questa logica qualsiasi incidente può diventare parte dello spettacolo, che è continuamente scherzoso e a tratti anche assurdo. Ciò che conta è giocare con le forme, il piacere e la libertà di un gioco semplice senza massimi sistemi.
Per Tullet un’idea è come un solletico. Quindi a che servono le idee? «A divertire certo, ma forse… anche a cambiare il mondo?».
Nella giornata di venerdì 26 giugno invece avrà luogo presso la Piazza del Municipio di Marano Equo Prospero, una performance/installazione ideata dalla compagnia torinese Stalker Teatro di cui ci parla Stefano Bosco.
Come nasce Prospero e in che modo parla del nostro tempo?
La genesi di questo progetto è molto stratificata ed è profondamente legata alla necessità di proporre un’operazione che sia condivisa e partecipata dal pubblico. Allo stesso tempo però la nostra è una compagnia storica che ormai da quarant’anni lavora all’interno della performance art e che ha collaborato anche con i Maestri dell’Arte povera, come ad esempio Michelangelo Pistoletto o Mario Merz; ma anche con figure teatrali del calibro di Grotowski. Quindi partecipare a questo festival per noi che siamo molto legati a una pratica artistica che prevede la fusione tra arte visiva e teatro, è senza dubbio stimolante. Se da un lato Prospero ha le caratteristiche di una performance legata alle arti visive; dall’altro è anche un’installazione partecipata, in un momento in cui è fondamentale tornare a fare le cose insieme, direttamente all’interno della comunità.
Stalker Teatro fin dalla sua nascita ha lavorato a contatto con le realtà più marginali: in carcere, negli ospedali psichiatrici, nelle periferie urbane. Questa vicinanza con situazioni così delicate ci ha fatto sviluppare una fortissima empatia, fino a far diventare la diversità uno dei fulcri della nostra poetica. Per questo l’importante è che avvenga un incontro tra persone diverse; perché il bambino che verrà vederci vorrà semplicemente giocare e non si preoccuperà minimamente del significato di questo lavoro.
Come ha continuato a operare Stalker Teatro durante il periodo di chiusura forzata dei teatri?
Non ci siamo mai fermati e abbiamo continuato in massima parte a progettare all’interno del nostro centro creativo (Officine Caos) a Torino, che durante il lockdown è diventato anche uno snodo nella rete di distribuzione alimentare volontaria per le persone in difficoltà economica. Quindi ci siamo impegnati sia ad aiutare il nostro territorio, sia a cercare nuove soluzioni per esprimerci, tra cui anche il digitale che però non vedevamo l’ora di abbandonare proprio perché la volontà più forte era di tornare in mezzo alle persone.
Questo progetto non è inedito, ma riprende un lavoro iniziato già dal 2019. Ovviamente il percorso oggi acquista un significato diverso, soprattutto in relazione a riflessioni sul senso del contatto, su cosa significhi occupare uno spazio collettivamente. In che modo quindi avete modificato quello che avevate costruito in precedenza e quali sono stati i cambiamenti evidenti rispetto a quell’esperienza?
Ovviamente al livello tecnico abbiamo dovuto modificare alcune azioni per rispettare le normative in vigore per il distanziamento sociale. Tuttavia questo non ha contaminato troppo il senso profondo dell’operazione, che è insito proprio nel concetto stesso di portare l’arte direttamente all’interno dei luoghi pubblici. Nel nostro immaginario il luogo pubblico ha delle caratteristiche precise e delineate che noi vogliamo mettere in discussione. Un luogo qualsiasi può trasformarsi se occupato in una certa maniera. Scegliere dunque di operare in maniera così particolare in uno spazio comune coincide con una precisa scelta di campo: artistica, politica, sociale, dove il luogo pubblico diventa il perimetro d’azione.
In Italia ad esempio manca il linguaggio, non ci sono nemmeno dei termini adatti a definire il fenomeno dell’arte nei luoghi pubblici. Essa viene inquadrata e definita perlopiù come generica arte di strada, quando il discorso è ben più complesso e potrebbe essere declinato in maniera molto più profonda se le istituzioni comprendessero l’importanza sociale di queste produzioni. Il nostro modo di combattere questo sistema è continuare su questa strada, nonostante tutto; anche perché le speculazioni ideologiche sono l’esatto opposto della qualità di relazione che ricerchiamo.
Gli ultimi artisti che abbiamo intervistato sono il drammaturgo e attore Aleksandros Memetaj e il coreografo e danzatore Yoris Petrillo, fondatori dell’associazione Anonima Teatri. Lavorando in una stretta sinergia hanno allestito Memorie di un ciabattino, spettacolo che narra le vicende che precedono l’assassinio di Giulio Cesare attraverso gli occhi di un giovane schiavo. Lo spettacolo andrà in scena il 27 giugno a Licenza, all’interno della Villa d’Orazio, ambientazione archeologica che costituirà il teatro perfetto per evocare il contesto della Roma antica.
Come nasce questo spettacolo e soprattutto come riflette sul presente?
Aleksandros Memetaj: L’associazione Anonima Teatri nasce nel 2020, anche se sono ormai quattro anni che io e Yoris Petrillo lavoriamo insieme. Oltre all’amicizia c’è una grande stima e fiducia in sala. Io mi occupo della scrittura e degli aspetti attoriali, lui invece gestisce gli aspetti connessi al movimento coreografico. Lavoriamo entrambi sull’azione, in una zona di mezzo tra teatro e danza. Partendo da approcci diversi cerchiamo di lavorare in una maniera complementare, compensando con le capacità di uno le mancanze dell’altro.
Potremmo dire che Memorie di un Ciabattino è il “prequel” di un altro spettacolo che stiamo sviluppando che si intitola Giulio. Giulio nella nostra immaginazione è un ciabattino che vive da vicino le vicende della congiura contro Giulio Cesare. Per creare questo personaggio però avevo bisogno di averne un’immagine chiara, dovevo figurarmelo. Quindi Memorie di un ciabattino può considerarsi in un certo senso una palestra di Giulio, spettacolo che nasce prendendo spunto dal Giulio Cesare di William Shakespeare. Il testo originale è profondamente rimaneggiato anche se gli avvenimenti restano quelli: noi non cambiamo la storia, ne raccontiamo semplicemente un’altra oltre a quella che tutti conoscono. Un giovane schiavo rimane invischiato in qualcosa che è più grande di lui e che lo lascia impotente nell’azione. In questo senso penso sia molto attuale. Abbiamo vissuto una situazione in cui c’era la pandemia che incombeva su di noi, ma che allo stesso tempo non eravamo in grado di comprendere. L’altro aspetto evidentemente affine al nostro tempo è il fatto che Giulio è uno schiavo e vuole liberarsi e se solo volesse col suo contributo potrebbe cambiare il corso della Storia. Vogliamo che lui sia il veicolo di situazioni che arrivano dritte allo stomaco dello spettatore in maniera così forte da fargli continuare a provare quella sensazione anche dopo lo spettacolo. In più c’è tutta una riflessione sul rapporto padre figlio, sul confine tra moralità e immoralità, sulla gestione del potere politico. Insomma c’è molto del presente che stiamo vivendo in questo spettacolo.
Come avete vissuto la situazione di isolamento forzato e cosa avete prodotto durante quel periodo?
Yoris Petrillo: Anonima Teatri è nata subito prima della pandemia e paradossalmente questa situazione disperata per noi è stata uno slancio a produrre. Dopo il panico iniziale ci siamo resi conto che bisognava iniziare a correre per riuscire a salvarsi dopo. Il lavoro si è accumulato e stratificato in vista delle riaperture che sapevamo sarebbero arrivate. Era un treno che non potevamo permetterci di perdere essendo giovanissimi come realtà.
Ci siamo ripresi un tempo per noi, quando solitamente invece il sistema dei finanziamenti può condurti a fare tante piccole cose con il solo obiettivo di produrre e, ovviamente questa non è per niente una modalità creativa. Abbiamo rischiato tanto, specialmente al livello economico, ma penso che ne varrà la pena perché abbiamo una prospettiva futura di produzione bella ampia e siamo fiduciosi sull’esito di queste proposte.
La situazione sociosanitaria nell’ultimo mese è nettamente migliorata e finalmente possiamo tornare a parlare e soprattutto a fare teatro. La sensazione però è che le riaperture e una ritrovata libertà d’azione ci stiano facendo prendere troppe libertà personali, quasi dimenticandoci di tutto quello che abbiamo vissuto. In che modo Memorie di un ciabattino ragiona sulla differenza tra libertà d’azione e libertà personale?
Yoris Petrillo: La cosa assurda di questa situazione è che le cose che prima erano quotidiane oggi ci sembrano delle grandi libertà. Ancora più inquietante però è la facilità con cui ci siamo abituati alle restrizioni, sentendoci dei criminali se andavamo oltre gli orari consentiti o se non rispettavamo tutte le misure di sicurezza…
Aleksandros Memetaj: Per quanto riguarda Giulio il ciabattino, questo discorso è a un livello molto più basso. Lui oltre a essere molto giovane non avrebbe mai la capacità di poter ragionare sulla dicotomia che mi hai posto nella domanda. Tuttavia è sempre un uomo che sogna di essere libero e che ogni giorno potenzialmente potrebbe rischiare la vita se si prendesse certe libertà. Tra l’altro nessuno dei personaggi in fondo è libero, ognuno è schiavo di qualcuno o qualcosa.
Da un punto di vista personale, invece, penso che la cosa migliore sia sempre cercare di capire, di entrare nelle situazioni. L’uomo libero infatti è quello che riesce a comprendere dove termina la sua libertà personale e dove inizia quella del contesto che lo circonda. Questo per me oltre a essere un principio fondamentale di come vedo il mondo è anche il punto di partenza di gran parte dei miei testi.