SoloInTeatro2020, ritratto Michela Lucenti

Fuori Programma Festival | Intervista a Michela Lucenti

Dopo il successo della scorsa edizione, torna al Festival Fuori Programma, oggi 28 e domani 29 giugno, MAD di Balletto Civile. La performance, organizzata in site specific al Parco Alessandrino, propone percorsi, viaggi, storie e suggestioni che prendono vita al calar del sole. Più vicino all’idea di manifesto che a quella di spettacolo, MAD è l’acronimo di Museo Antropologico del Danzatore. Come in un museo, i danzatori/attori abitano uno spazio protetto: quasi dodici teche in PVC, serre in cui prendersi cura dei processi creativi. Un museo fatto di storie di uomini e donne che hanno dedicato il loro corpo alla danza.
Per approfondire il quid che soggiace al progetto, abbiamo intervistato Michela Lucenti, fondatrice della compagnia Balletto Civile, gruppo nomade per definizione, multietnico e animato da una forte tensione etica.

Quando, come e da quali esigenze nasce MAD?

L’idea è nata durante il primo lockdown. Balletto Civile è una compagnia molto numerosa, ci tengo a lavorare in un contesto comunitario; di conseguenza, anche il rapporto che abbiamo instaurato con il pubblico è di tipo popolare, in modo che l’incontro in occasione degli spettacoli coincida con un confronto tra comunità. Confronto divenuto impossibile a causa della pandemia: come danzatori, non potevamo immaginare spettacoli collettivi, non ci era consentito toccarci neanche tra di noi, e dovevamo garantire una netta separazione dal pubblico. Per queste ragioni, ancora prima di concepire un’esposizione, ho voluto cercare una soluzione pratica per ridurre la distanza tra noi e il pubblico, e per portare avanti un lavoro di comunità, coinvolgendo dunque un gran numero di persone, sfruttando i tamponi periodici e i vari dispositivi sanitari, ma recuperando lo stare in scena insieme. In quel momento non c’erano spettacoli che andavano in scena con gruppi di persone. Come molti, ho cercato una strada per lavorare proteggendo i danzatori. Non sono partita dal desiderio di una teca, ma la protezione in PVC poteva fungere da mascherina, cosicché il pubblico potesse avvicinarsi a noi, o addirittura toccare la mano dei danzatori dall’altro lato della plastica. Questo ci ha permesso di fare uno spettacolo di gruppo, che per noi costituisce un’esigenza basilare: fare il lavoro che amiamo, e farlo come ci piace farlo, il prima possibile. Questo contenitore, divenuto un’esposizione, ha fatto sì che si innescassero una serie di riflessioni, in dialogo con la protesta per il mondo del lavoro nell’ambito della danza, assolutamente privo di tutele, da cui lo spettacolo ha mutuato il carattere di simil-manifesto.
Sin dall’inizio, mi sono opposta alle forme di danza digitale; durante il lockdown, ho tenuto delle lezioni gratuite apertissime, dedicate a bambini, a persone anziane, nelle quali cantavamo o praticavamo yoga. Ma l’idea di far vedere uno spettacolo in video per me non ha senso. Abbiamo creato dei video di questo spettacolo, per il festival Resistere e creare di Genova, ma si trattava di un progetto artistico particolare, realizzato da operatori esperti del campo cinematografico e interamente concepito come operazione digitale. Questo progetto, al contrario, è nato per la performance dal vivo. Lanfranco Cis e la direzione artistica del festival Oriente Occidente, di Rovereto, sono stati i miei primi interlocutori, i primi a credere nel progetto e a sostenerlo. Da lì si sono innescate tante riflessioni, perché dentro a queste casette di plastica ci sono dei danzatori che sono anche delle persone, che in quel momento stavano elaborando lutti, o non vedevano i propri cari da mesi (lavoro con molti danzatori stranieri che non hanno incontrato le loro famiglie per sei mesi). È per questa ragione che il progetto ha anche una prospettiva antropologica: non riguarda solo i danzatori, ma gli uomini e le donne che abitano e danzano nelle casette, che usano i loro corpi come una testimonianza, all’interno della comunità, e mai attraverso un video o per interposta persona.
Mi sono subito resa conto che il progetto necessitava di un cast molto diversificato: non potevo coinvolgere solo danzatori omologati, ma al contrario varie tipologie di danzatori, da quello classico al danzatore di strada, hip hop ecc. Così come variano enormemente le età dei danzatori: cosa vuol dire invecchiare lavorando nella danza? Questa varietà anagrafica e di formazione comporta che le performance all’interno delle casette siano molto diverse tra loro.
Costruire questo spettacolo è stato faticosissimo: ho potuto provare solo con un danzatore alla volta, dopo aver seguito per ciascuno di loro (12 danzatori per 12 casette) l’iter del tampone e del conseguente isolamento per evitare sorprese. Dunque, ho provato dapprima la partitura con i singoli, e in seguito abbiamo provato a concertarla, spinti dal desiderio di tornare alla vicinanza, all’unità, alla comunità. MAD dura 50 minuti, anche perché le casette in PVC saturano l’ossigeno e iniziano ad appannarsi a causa del fiato. Per gli spettatori è molto struggente perché i danzatori diventano evanescenti, sembrano sparire nel vapore acqueo, una metafora del momento che stiamo attraversando. Il respiro che piano piano impedisce di vedere la persona; un manifesto, come a dire «non perdiamoci», ma anche un ricordo delle persone svanite da un momento all’altro.

Cosa vuol dire tornare al Festival Fuori Programma con lo stesso progetto che hai presentato lo scorso anno?

Di primo acchito è stato strano, ma dopo la sorpresa iniziale mi sono aperta a una riflessione più ampia. La ripartenza è stata piuttosto violenta per gli artisti, ci siamo ritrovati, a una velocità super sonica, di nuovo in un meccanismo stritolante. Eppure, tutti siamo stati fermi, tutti abbiamo riflettuto, molti di noi sono cambiati. Stiamo ripartendo, ma la dinamica dei produttori che non vogliono collaborare sembra invariata, come se nulla fosse accaduto. Non dobbiamo dimenticare che non è così: dalla pandemia siamo usciti tutti diversi. È inoltre d’obbligo una considerazione, a prescindere dalla pandemia: il mondo odierno sembra aver smarrito ogni forma di ritualità, e di riflesso la comunità degli operatori culturali è ossessionata dalla corsa alla novità. Si configura come una sorta di consumismo culturale, in cui tutto deve essere nuovo, fruito rapidamente; dagli artisti si pretendono costanti debutti, si ripete loro: «Che idea hai quest’anno?», come se la novità di un progetto valesse più della qualità.
Per questa ragione, quando Valentina Marini [l’abbiamo intervistata qui, ndr] mi ha proposto di tornare a Fuori Programma con MAD, di riproporre il progetto addirittura nello stesso posto, ho individuato nella sua iniziativa il desiderio di ricreare un rito, di dare la possibilità a una comunità di confrontarsi con un oggetto che già conosce ma che potrebbe essere cambiato, come sarà accaduto alla comunità stessa. Si tratta di un tasto dolente per il panorama italiano: quando porto gli spettacoli a Berlino, ad esempio, si fanno teniture da 30 repliche, e dopo sei mesi altre 30 repliche. È chiaro che non saranno solo le stesse persone che tornano a vederlo.
In Italia si fatica a produrre in quest’ottica, in cui invece credo molto: quando si ha modo di vedere degli spettacoli che hanno debuttato due o tre anni prima, è un’occasione preziosa, che consente di capire cose che magari la prima volta erano sfuggite, oppure ci si può semplicemente rendere conto dei cambiamenti in relazione al passare del tempo. Nel nostro caso specifico, l’occasione è ancora più preziosa perché si tratta di un manifesto (sebbene per noi, a livello di fatica, sia a tutti gli effetti uno spettacolo). Cosa accade se riproponiamo lo stesso rito a un anno di distanza? È un ottimo spunto per riflettere su come siamo cambiati nella pandemia. E utilizzo la parola rito, perché credo che il teatro abbia a che fare con la ritualità e voglio evitare che MAD sia recepito come un format, motivo per cui è fondamentale che i danzatori siano gli stessi dell’anno passato.

La chiusura a causa dell’emergenza sanitaria ha messo in evidenza una serie di problematiche antecedenti alla pandemia. La ripartenza, tuttavia, non denota grandi mutamenti rispetto al “prima”. Quali credi che siano i cambiamenti mancati a cui il settore dello spettacolo dal vivo non dovrebbe rinunciare?

Una cosa per me molto importante, di cui sto parlando con tutti gli operatori, è che bisogna imparare a collaborare davvero; è scandaloso lavorare in un paese in cui non esiste il dialogo. Balletto Civile è una compagnia abbastanza nota, che fortunatamente lavora a buon regime. Eppure, anche noi soffriamo del mancato dialogo tra i produttori. Siamo costretti a realizzare uno spettacolo in soli 30 giorni, quando in tutta Europa gli spettacoli vengono provati per almeno 60-90 giorni. Invece di unire le forze e aiutare un artista a dedicarsi a un unico progetto, migliorandone la qualità del lavoro, costringono gli artisti a lavorare simultaneamente a tre progetti diversi. È scandaloso. Siamo in un paese in cui non esiste collaborazione, gli enti non si parlano, i festival sono arroccati su delle banalità senza accorgersi che parliamo a pubblici diversi. Il pubblico di Palermo non si cura di ciò che vede o non vede il pubblico di Rovereto… Eppure, c’è questa ossessione patologica per i debutti assoluti, le anteprime, ecc.
Al contrario, gli artisti andrebbero accuditi. Questo purtroppo non accade neanche alle compagnie importanti, figuriamoci ai giovani. Un incubo: possono fare delle residenze, ma spesso sono costretti a rinunciare a delle date, perché alcuni programmatori impongono una sorta di esclusiva. Ma è possibile che dopo tutto quello che abbiamo vissuto e urlato, in un paese che ancor prima della pandemia era già in affanno sul settore cultura, soprattutto in relazione alla danza in cui gli artisti producono spettacoli con il minimo indispensabile, non siamo in grado di far collaborare degli enti? Non c’è nessuno che interviene sulla questione?
A me piacerebbe uscire dal comparto danza, perché talvolta percepisco alcune caratteristiche come rigidità castranti. Il mio è un lavoro che pone il corpo fortemente al centro, come elemento scenico principale. Senza voler nulla togliere alla bellezza e alla profondità di chi utilizza linguaggi puri, non possiamo fingere che non esistano anche tantissimi artisti che invece amano contaminarsi e dar vita a forme espressive spurie, che devono essere contemplate. In questo siamo davvero molto indietro rispetto all’Europa. Mi sembra incredibile che le istituzioni non facciano niente, a parte scrivere libri, per poi tirarsi indietro all’atto pratico. Se non amassi questo lavoro, al quale ho dedicato tutta la mia vita, ci sono dei momenti in cui mollerei, perché si incanala ogni energia in un lavoro così profondo, che poi viene trattato come se fosse plastica, come se stessero vendendo qualcosa di inanimato.
Se i produttori unissero le forze, sarebbero davvero in grado di sostenere gli artisti. Sono pieni di ammirazione per i progetti stranieri, spesso preferiti a quelli nostrani, senza rendersi conto che gli spettacoli italiani vengono prodotti nella metà del tempo. Il processo creativo richiede tempo, le scoperte devono depositarsi, altrimenti tanto vale prendere dei bravi interpreti per quello che sanno già fare, e chiedere loro di fare esibire le competenze acquisite. In tal modo, la regia si riduce a un lavoro di mera organizzazione. Seguire un percorso creativo, invece, vuol dire cambiare l’interprete, condurlo in luoghi sconosciuti, negli abissi, in una vertigine distante dalla sua comfort zone. Vengo spesso subissata dalle richieste di fare un solo, ma ciò che per me conta ora è far girare la compagnia. Trovo grave e inaccettabile la programmazione dello spettacolo dal vivo che segue il principio del «fai quello che sai fare, fallo bene, fallo subito».

Principio che risponde alla retorica del «massimo del risultato con il minimo dello sforzo»…

Se la cultura non è esente da questo meccanismo, vuol dire che sottostà solo ed esclusivamente alle leggi dell’economia. Allora la lotta, oggi, deve essere questa: una lotta per la ricerca creativa. Non necessariamente una ricerca estrema, dai tempi infiniti, come quella condotta dai grandi maestri del Novecento, ma dobbiamo opporci alle istanze produttive che impongono di prendere giovani artisti appena diplomati nelle scuole di teatro e di danza e portarli in scena in 20 giorni. Prima di andare in scena occorre vivere delle esperienze, che richiedono tempo e respiro diversi.

Che cos’è per te la danza, o questa forma spuria di espressione?

Per me la danza è il corpo, è la scena, è il teatro. L’elemento scenico dello spettacolo dal vivo per eccellenza è il corpo, e la danza non fa altro che stringere ancora di più il focus sullo studio del corpo. Quando vado in scena, che io sia un danzatore, un attore o un cantante, decido di utilizzare come strumento di comunicazione il mio corpo. Posso scegliere se perseguire la strada del movimento, della parola o della voce. Ma il corpo rimane lo strumento imprescindibile. Per me la danza è una ricerca volta a comprendere le possibilità espressive della sfera scenica attraverso il corpo.

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