Foto di Sara Meliti

Fuori Programma Festival. Intervista a Marcos Morau

Tra le Geografie Relazionali tracciate da Fuori Programma, Festival Internazionale di Danza Contemporanea che sta abitando gli spazi del VI municipio di Roma, arriva il danzatore, coreografo e regista spagnolo Marcos Morau che presenterà in prima assoluta Simulacro, performance site-specifc realizzata con la compagnia Spellboud Contemporary Ballet. Dal 2 al 4 luglio al Parco Alessandrino, Morau metterà in scena una riflessione sul valore dell’immaginazione e dello sguardo, un tentativo di dissolvere la dicotomia tra realtà e finzione, chiamando in causa gli spettatori in prima persona lasciandogli lo spazio per entrare e completare l’esperienza percettiva della perfomance cercando di creare, in questi tempi “distanti”, un nuovo modo di affrontare l’atto performativo.

©Museo Reina Sofía (Joaquín Cortés, Román Lores)
©Museo Reina Sofía (Joaquín Cortés, Román Lores)

Presentando Simulacro viene citato Goethe quando afferma che «Pochissimi sono capaci di immaginare la realtà». Se c’è qualcuno in grado di farlo, questi sono certamente gli artisti e coloro che abitano il mondo del teatro. Che realtà immagina, per il presente e il futuro, in questo tempo così incerto che stiamo attraversando?

In quanto creatori, credo che ciò che facciamo sia soprattutto evitare la realtà, penso, cioè, che la realtà ci ispiri ma che non ci piaccia. Proprio per questo creiamo arte, nel mio caso danza: perché non ci piace ciò che vediamo, la realtà non è sufficiente e come artisti e persone che credono nell’arte in qualche modo ci rifugiamo nella creazione. La realtà deve essere imperfetta e deve essere così com’è perché l’arte eserciti la sua capacità di tradurre ed esprimere ciò che sente. Se la vita fosse perfetta, non credo che gli artisti avrebbero alcun ruolo nel mondo.

©Museo Reina Sofía (Joaquín Cortés, Román Lores)
©Museo Reina Sofía (Joaquín Cortés, Román Lores)

Simulacro, nonostante e a causa delle difficoltà dovute al distanziamento imposto dalla pandemia, si propone l’ambizioso obiettivo di coinvolgere il pubblico nella performance. È possibile immaginare una nuova grammatica scenica e performativa più vicina agli spettatori, al di là delle urgenze dettate dal tempo pandemico?

Questo spettacolo, forse più di altri, necessita della presenza ravvicinata del pubblico. Non c’è un palcoscenico, spettatori e attori condividono lo spazio, la finzione e la realtà, quindi la prossimità è molto importante.
Credo che il covid lascerà molte domande aperte e crisi nel tempo, ma credo anche che la danza, l’arte e la società in generale, dovranno apprendere e capire l’avvicinamento, il lavoro comune e il contatto in modi distinti. Penso che torneremo a incontrarci, anche fisicamente, che potremo di nuovo toccare il pubblico in senso letterale. Sfortunatamente, in questo rabbioso presente, tutto ciò non potrà accadere in Simulacro, dove abbiamo dovuto inventare un gioco di sguardi, di coinvolgimento coreografico, di condivisione dello spazio in maniera unica poiché, appunto, dovremo mantenere le distanze e questo ha in parte alterato l’idea che avevamo dello spettacolo. 

©Museo Reina Sofía (Joaquín Cortés, Román Lores)
©Museo Reina Sofía (Joaquín Cortés, Román Lores)

Nei suoi spettacoli lavora mescolando e coniugando differenti linguaggi artistici, come la danza, la fotografia e il teatro. Come si svilupperà questo linguaggio ibrido in Simulacro? E che ruolo avrà il paesaggio naturale del parco dove prenderà corpo lo spettacolo?

Come dicevo prima, è molto importante per me che non ci sia un palcoscenico dove il pubblico possa riconoscere inequivocabilmente il luogo dell’azione. Voglio, invece, che l’azione accada a 360 gradi e che gli spettatori si sentano in mezzo a una battaglia, dove gli attori sono nascosti tra loro e la parola, il movimento e la musica si intrecciano e si uniscono cercando di diluire i confini tra il pubblico e la scena. In questo spettacolo mi affido ancora una volta al movimento, ma anche molto alla parola. Quasi tutto il testo dello spettacolo è tratto da testi e poesie di Pier Paolo Pasolini, per me un punto di riferimento importante, un autore e un genio che rispetto e amo molto. Per Pasolini, così come per me, è fondamentale interrogarsi sulla realtà, su ciò che consideriamo come verità univoca, mentre le verità sono sempre molteplici e nascoste. Un Simulacro, in fin dei conti, è una copia della vita, una copia della realtà che sappiamo essere menzogna. Credo che il testo di Pasolini si presti molto bene per mettere in scena questa fantasia che si genera quando si parla di realtà versus finzione.

Foto di Sara Meliti
Foto di Sara Meliti

È la seconda volta che lavora con la compagnia Spellbound Contemporary Ballet, con cui realizzò Marte, un lavoro che mette in scena il conflitto tra individuo e collettività, tra il presente e un futuro incerto – che si è certamente rivelato tale. Esiste una connessione tra queste due opere?

Una volta, lessi che un artista passa tutta la vita parlando della stessa cosa. Tutto il mio lavoro e la mia opera, hanno a che vedere con una riflessione e un interrogarsi sul presente che viviamo e sul futuro che verrà. Ho molte paure, molte paranoie e ossessioni che riguardano il futuro incerto, la paura della solitudine, dell’umano, dell’evoluzione e tutto ciò è presente in Marte, in Simulacro e in ogni mio lavoro degli ultimi anni. Quanto citavo prima, per quanto mi riguarda è vero. Gli artisti sono ossessionati da poche cose, ma ciò che ci ossessiona lo fa per sempre.

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