Intervista a cura di Margherita Dotta e Umberto Giustozzi
Il 12 luglio andrà in scena presso l’Arena del Teatro India Corpi/Bodies, una prima regionale firmata da Diego Tortelli (coreografo residente all’Aterballetto e con un bagaglio di esperienze europee di rilievo), che apre l’ultima settimana di Fuori Programma Festival che, per l’occasione, trasloca dal quartiere Quarticciolo al Teatro India. Corpi/Bodies è un programma nel programma di Fuori Programma (si passi il gioco di parole), strutturato in quattro quadri, eterogenei tra loro, ma con un unico fil rouge: il corpo. Lo ha messo in luce lo stesso Diego Tortelli durante questa intervista.
Quale è stata la scintilla generatrice che ha portato alla nascita e allo sviluppo di Corpi/Bodies che vedremo all’interno di Fuori Programma festival?
Corpi/Bodies nasce da una collezione di lavori che ho effettuato in questi ultimi quattro anni come coreografo residente all’Aterballetto e che rappresentano lo sviluppo di questi quattro anni con loro. Abbiamo selezionato i quattro pezzi che potrebbero rappresentare di più il mio linguaggio del corpo ma allo stesso tempo l’evoluzione che è successa in questo periodo nella mia ricerca. Come coreografo e danzatore sono ossessionato dal corpo, dalle sue potenzialità e anche dai limiti, tant’è che ho fatto anche tre creazioni con artisti disabili. Corpi/Bodies vuole riassumere queste potenzialità e questi limiti del corpo. Lo spettacolo sarà aperto da un talk con la drammaturga Gaia Clotilde Cheternich, attraverso cui il pubblico potrà partecipare al processo creativo dello spettacolo e poi, con una danzatrice della compagnia, prima di iniziare la performance vera e propria, mostrerò i tools o le task che applico nella composizione del corpo e come queste task si sviluppano all’interno dello spettacolo. Lo spettacolo è composto da quattro lavori: un solo, un trio, un duetto e un quintetto. Il solo è stato creato due anni fa; il trio (Domus Aurea) è ispirato al mio periodo vissuto a Roma; poi c'è un duetto che è stato creato dopo il primo lockdown, mentre il quintetto è stato creato dopo il secondo lockdown.
Com’è stato creare un duetto e un quintetto ora che l’emergenza sanitaria ci ha disabituato alla vicinanza e al contatto?
C’è da dire che all’Aterballetto abbiamo avuto la grandissima fortuna di essere trattati come i calciatori: infatti nel momento in cui siamo potuti rientrare in sala siamo stati in grado di creare senza limitazioni. Il lockdown, però, per me è stato anche molto utile, poiché mi ha permesso di fermarmi e riflettere. Per questo Another Story è molto legato al concetto di ridare un significato al gesto dell'abbraccio, mentre Preludio è come se fosse un nuovo inizio. Durante il secondo lockdown ho iniziato a chiedermi quale fosse il mio credo, in che cosa io credessi… E proprio da queste domande è nato il programma Corpi/Bodies: io credo nel corpo e nelle sue potenzialità. Volevo che fosse da un lato una dedica al corpo e dall’altro un nuovo inizio per continuare a migliorarsi su tutti gli aspetti. Proprio per questo la musica di Nick Cave la trovo perfetta poiché è come se tutte le sue canzoni fossero delle preghiere profane. Lui non è religioso, però utilizza sempre riferimenti quasi biblici rispetto a qualcosa che in realtà è estremamente terreno e reale. Volevo che Preludio riportasse l’atmosfera di una preghiera profana dedicata al corpo per un nuovo inizio.
Another Story è sulle musiche degli Spiritualized, un misto di indie rock e musica sinfonica. Anche la prossima creazione per Aterballetto sarà sulla loro musica, mentre la nuova produzione che farò a Monaco sarà con le musiche dei Velvet Underground. Altro riferimento musicale per me è Federico Bigonzetti (figlio di Mauro Bigonzetti), giovane compositore italiano che vive a Londra e con il quale ho intenzione di continuare a crescere e a lavorare insieme.
I tuoi lavori ci hanno riportato alla bellezza del corpo ricercata nella Grecia antica. Come si può definire il tuo linguaggio coreografico? Come usi il corpo dei danzatori?
Mi piace questo riferimento all’antica Grecia. Nella prima parte della mia ricerca ero molto legato all’idea di creazione di un labirinto interno del corpo, che definivo “Labirinto di Dedalo”: immaginavo le articolazioni incatenate le une alle altre e la presenza di uno specchio- attraverso il quale vedere se stessi e la propria parte emotiva- al centro di questo labirinto privo di uscita. In sostanza, si trattava di una struttura geometrica al cui interno vi è un’anima.
In una seconda fase della mia ricerca ho tentato di ampliare questo immaginario, per poterlo trasferire nell’azione tra corpo e corpo; si è trasformato in una sorta di tetris, in cui le piccole parti articolari combinano insieme e creando costantemente nuove forme. È un gioco del tetris imperfetto che si costruisce in layers e dove ci sono anche spazi che non vengono completati.
Attualmente cerco di trovare nuove risorse per approfondire il rapporto tra l’estrema articolazione del corpo e l’origine del suono. Spesso nella danza utilizziamo il suono, come ambiente o come strumento per dare ritmo alla performance. Diversamente nei progetti che sto sviluppando per la mia compagnia a Monaco sto analizzando il movimento delle corde vocali e la relazione tra denti, lingua, bocca e labbra ogniqualvolta produciamo un suono. Osservare questo apparato mi ha dato l’opportunità di riflettere su come trasmettere questa disarticolazione estrema all’interno del corpo intero del danzatore.
Il mio interesse infatti si è concentrato da un lato sul modo in cui l’articolazione delle corde vocali si riverbera nel corpo, dall’altro sull’identità che la voce di ognuno rispecchia, dal momento che il nostro modo di parlare in una lingua diversa dalla nostra madrelingua riflette il diverso modo di produrre il suono.
Tutto ciò proviene anche dalla mia una storia personale: mio padre ha subito un’operazione alle corde vocali che lo ha portato a perdere la possibilità di utilizzare la potenzialità massima della sua voce. In quell’occasione ho visto come il suo corpo si è adattato a questo cambiamento.
In questo modo il nostro apparato sonoro diventa generatore di movimento e di conseguenze le possibilità di articolazione diventano ancora più estreme.
Nel momento in cui offri dei task ai tuoi danzatori prediligi più un pensiero su ciò che avviene nel sistema muscolare o nel sistema scheletrico?
Quello che mi interessa sono soprattutto le sfumature di movimento e come un danzatore possa passare da una sfumatura di movimento all’altra. Si può parlare di volume, di rilassato, di staccato e l’unico modo per produrre queste sfumature di movimento è riuscire a passare continuamente tra l’utilizzo dello scheletro all’utilizzo muscolare. Sono affascinato da entrambe perché entrambe sono necessarie a costruire un effetto di trasformazione molto rapida tra un passo e l’altro e tra una qualità di movimento e l’altra.
Hai parlato di anima e strutture geometriche. Che tipo di rapporto intercorre tra razionalità e irrazionalità nel movimento?
L’elemento razionale e quello irrazionale sono presenti entrambi. Il fattore irrazionale, dell’immaginazione, è legato alle mie origini italiane, che però sono state contaminate da un fattore più razionale che proviene dal fatto di aver lavorato in paesi nordici, come la Germania, l’Olanda e la Svezia. L’unione di questi due elementi spero che possano essere la forza del mio lavoro: spesso ho il desiderio di rompere la geometria di matrice forsythiana attraverso l’uso dell’immaginario e dell’istinto. Nel momento creativo con il danzatore (momento di forte collaborazione) spesso utilizzo tools o task estremamente legati a concetti geometrici, alla creazione/distruzione di forme. Ma non bisogna mai dimenticare che di fronte si ha una persona con tutto il suo bagaglio di esperienze. Questo confronto tra geometria e immaginario lo traduco pensando le ossa del corpo costituite da un tessuto simile alla seta, mentre la parte muscolare da un tessuto elastico ma rigido come il jeans. In quel momento subentra un lato irrazionale e istintivo, che nella rappresentazione è spesso ciò che tocca l’occhio del pubblico meno esperto: si tratta del fattore umano, capace di stuzzicare l’immaginazione, semplicemente trasponendo immaginari.
La geometria si fonda su leggi matematiche rigorose; quanto contano rigore e disciplina nel tuo lavoro?
Finora nella mia esperienza ho avuto sempre una predilezione per danzatori con una forte preparazione tecnica, poiché per fare questo lavoro di estrema disarticolazione c’è bisogno di una estrema coscienza del corpo e quindi di rigore. Si tratta di un rigore che sta sia nella precisione dell’esecuzione che e soprattutto nel voler costantemente riconoscersi e scoprire nelle potenzialità del proprio corpo in divenire. Con il passare del tempo il corpo cambia, subentrano caratteristiche e potenzialità nuove e proprio per questo penso che sia necessario che mente e corpo siano unite. Questo richiede sicuramente un grande rigore nel modo di lavorare.
Nel tuo processo creativo lavori anche con l’improvvisazione per poi arrivare a una forma più definita e stabile del lavoro?
Utilizzo spesso l’improvvisazione come modo per conoscere i danzatori, capirne le potenzialità e per scoprire nuove qualità del corpo, ma non utilizzo l’improvvisazione per creare materiale coreografico. I danzatori sono sempre la mia più grande risorsa per l’ ispirazione, coloro che portano energia per continuare a creare. Se credi nei tuoi danzatori e i tuoi danzatori credono in te può uscire un prodotto che funziona, perché alla fine sono loro che devono difenderlo, amarlo e crederci. Al di là che sia una masterpiece o che non lo sia, se loro brillano in scena c’è sempre un valore che viene apprezzato dal pubblico.
C’è un’esperienza che ti ha segnato maggiormente anche nella creazione di un tuo stile personale (sempre che si possa parlare di “stile del coreografo”)?
Nel momento in cui ho deciso di smettere di ballare e di concentrarmi soprattutto sulla carriera da coreografo non mi sono mai sentito di dover far sì che i danzatori dovessero rispecchiare me stesso. Penso che nel mondo della danza contemporanea ci sia molto l'ossessione dello “stile del coreografo”| e ciò spesso porta a percorrere la strada sbagliata nel tentativo di riprodurre dei cloni. Io sono interessato alle persone che ho davanti, nello stesso modo in cui sono affascinato dalle persone che incontro nella vita quotidiana. In qualche modo penso che il mio stile sia definito dalla fortuna che ho avuto dall'incontro con i danzatori.
Ovviamente nella mia carriera ci sono state esperienze molto importanti, come lavorare con il coreografo Richard Siegal che mi ha aperto alla costruzione geometrica di forza; con l'architetto Frédéric Flamand del balletto di Marsiglia che, soprattutto nella costruzione dello spettacolo, mi ha fatto comprendere l’importanza e la molteplicità degli elementi che supportano la danza in scena; poi sicuramente Marcos Morau de La Veronal, a mio parere un genio assoluto da un punto di vista teatrale e della composizione dello spazio e del corpo. Tutte queste esperienze mi hanno arricchito moltissimo ma non sono l’unico bagaglio che porto in scena.
Non ho mai danzato un mio lavoro e non ho mai desiderato farlo. Il mio percorso di danzatore e di coreografo sono entrambi in me, ma non sono legati da qualcosa nello specifico.
Una cosa sicura è che lo stile che porto in scena oggi è legato al fatto che da quattro anni lavoro con i sedici danzatori meravigliosi dell’Aterballetto con cui ho avuto la fortuna di portare avanti un percorso condiviso.
Generalmente nella danza la drammaturgia (e di conseguenza il ruolo del/la drammaturgo/a) viene sempre messa a latere o comunque viene considerata come compito del coreografo/a, mentre nell’Europa continentale (per esempio in Germania, soprattutto nel teatro) il drammaturgo è una figura essenziale nel processo creativo. Che tipo di dialogo hai aperto con Gaia Clotilde Cheternich, una delle drammaturghe più attive nel mondo della danza contemporanea italiana? Più in generale cosa pensi del ruolo del drammaturgo in una creazione coreografica?
Gaia ed io non abbiamo mai lavorato insieme. Corpi/Bodies in realtà non ha un drammaturgo presente, a differenza delle creazioni che presento con la mia compagnia di Monaco, che sono firmate sia da me che dal mio drammaturgo. Con Gaia ci siamo incontrati la prima volta un anno fa, durante un talk per uno spettacolo all'aperto: in realtà non ci eravamo granché preparati, ma lei conosceva il mio lavoro e io conoscevo il suo. Abbiamo quindi iniziato la nostra chiacchierata e ci siamo resi subito conto di avere la stessa comprensione, la stessa idea del mondo della danza, un background simile, lo stesso tipo di ispirazione e lo stesso tipo di conoscenza. Per questo abbiamo riproposto questa esperienza per Fuori Programma, anche se nel processo creativo non abbiamo mai collaborato. Spero possa succedere in futuro perché è una persona con cui c'è una grandissima intesa e grande comprensione.
In generale penso che il ruolo del drammaturgo sia fondamentale: lo considero come un occhio esterno, qualcuno in grado di suggerire determinate vie da prendere; una sorta di Wikipedia capace di darti un'ispirazione, un immaginario, un percorso con tantissime alternative che magari tu non conosci. Arricchisce la tua creatività e sulla base del tipo di progetto secondo me in alcuni casi è fondamentale. Quando in passato ho fatto lavori come Bella Addormentata per il Balletto di Toscana o Lorca son tutti a MilanOltre non ero ancora preparato alla possibilità di avere un drammaturgo, ma mi pento di non averlo avuto perché in situazioni del genere è fondamentale. In altre dove i lavori sono più istintivi e personali non penso che sia necessario. Penso però che il ruolo del drammaturgo sia assolutamente qualcosa che debba iniziare a far parte della scena della danza perché ti aiuta.
Spesso si sente dire che il drammaturgo è il primo spettatore. Ricordo che Jean Claude Carrière in un’intervista disse che i primi spettatori di uno spettacolo sono i tecnici. Ciò ci porta a un’ultimma considerazione: il privilegio e la responsabilità artistica e spettatoriale nel processo e nella messa in scena non sono di una sola persona, proprio perché in realtà non è mai un lavoro concluso e si avvale di una molteplicità di teste.
Sono convinto dell'idea che un buon lavoro esca da una capacità direttiva del coreografo di scegliere i collaboratori giusti, ma è grazie alla presenza dei collaboratori stessi che il prodotto poi funziona. Essere coreografo vuol dire riuscire ad unire tutti gli elementi e avere la capacità e l'umiltà di comprendere quali sono quelle parti che non si sanno gestire autonomamente. Per esempio io non lavoro senza un light designer, anche perché le luci non sono presenti quando inizio a visualizzare una coreografia. La stessa cosa vale per il drammaturgo, per il costume designer, per il set designer, e così per tutti quei ruoli per i quali io non ho la preparazione tecnica. Non credo nel monopolio, anzi penso che il futuro della danza consista nella collaborazione. Per esempio nel mio caso noi siamo «Aterballetto con Diego Tortelli»: si tratta di un lavoro in team e questo rende il senso di comunità, anche perché il destinatario di uno spettacolo non è il singolo, ma la comunità del pubblico.
La scena contemporanea purtroppo ha dimenticato il pubblico, come ha dimostrato la crisi dovuta al Covid-19, e questo non può accadere. È normale fare lavoro di sperimentazione, come lo è avere prodotti diversi che toccano pubblici diversi, però non bisogna dimenticare la presenza del pubblico. Spero che questo periodo di crisi abbia aperto gli occhi sul rischio della strada che la danza contemporanea sta percorrendo in questo momento, quella cioè della chiusura assoluta, quando in realtà il contemporaneo dovrebbe essere l'apertura, prima di tutto nei confronti del nostro pubblico. Il nostro lavoro non è solo un lavoro privato e di ricerca, lo è in una prima fase, ma ha anche un obiettivo che è la rappresentazione live verso un pubblico che sta osservando.
Certo, io parlo da una posizione privilegiata dal momento che l’Aterballetto ha possibilità produttive ampie, per cui possiamo dividere chiaramente il periodo di ricerca (ricerca che per me riguarda il corpo) che non ha un obiettivo di rappresentazione, e la fase di creazione di uno spettacolo, che è un percorso che ha una conclusione molto chiara. Nella scena italiana, per difficoltà produttive, spesso lo spettacolo presentato è un work in progress, ancora legato alla ricerca. Spero che presto la scena italiana dia la possibilità a tutti i coreografi di separare il periodo di ricerca da quello di creazione, affinché si abbia il tempo e lo spazio adeguato alla conoscenza e allo studio senza la pressione di presentare un prodotto finito; solo in un secondo momento poter entrare in sala per creare il prodotto che poi viene rappresentato al pubblico. In questo modo il lavoro assumerà un altro valore e non importa che si tratti di una creazione sperimentale o meno…ciò che conta e che cambia è l'obiettivo.