Le luci di sala sono ancora accese. La voce che annuncia l’inizio dello spettacolo non ha ancora parlato. Il chiacchiericcio del pubblico riempie la sala del Teatro Goldoni. Un ragazzo in felpa grigia e jeans scrive sul suo Macbook, seduto alla scrivania, che riempie una zona del palcoscenico. La sua presenza attira la timida attenzione del pubblico, che lo scruta tra un commento e un altro.
Poi, l’avviso: «Signore e signori, benvenuti alla Biennale Teatro».
È qui che ci troviamo, in un’umida e afosa Venezia, animata da performance e messinscene teatrali e da conferenze finanziarie per il G20. Sul palco, Édouard Louis, unico interprete nonché scrittore del testo Qui a tué mon père, prima italiana con la regia di Thomas Ostermeier. Oltre alla scrivania (luogo della realtà, in cui Édouard scrive la biografia del padre) la scenografia si completa di una poltrona vuota, a simboleggiare la presenza/assenza del padre, e infine di un microfono centrale in proscenio, luogo di dialogo con gli spettatori/lettori.
Al termine dell’annuncio, Édouard Louis inizia a raccontare. I suoi abiti sono neutri, l’atteggiamento, la gestualità e il tono di voce sono definibili, secondo una visione stereotipata, come appartenente alla categoria “eterosessuale”. Poi, il genio registico di Thomas Ostermeier irrompe nella messinscena: Barbie Girl risuona in sala ed Édouard canta la canzone in playback, ballando fieramente a ritmo della musica. Con buona dose di ironia, il regista si prende gioco del pubblico, ribaltando il suo punto di vista, dettato da pregiudizi che appiattiscono il mondo in etichette prevedibili. Proviamo sconcerto, forse lo stesso sconcerto che provò il padre di Édouard quando lo vide da bambino recitare la parte della cantante femmina.
In Qui a tué mon père regia e drammaturgia si completano con eccezionale semplicità. Ci ritroviamo di fronte a un teatro profondamente legato al testo. Affermazione che potrebbe far rabbrividire gli operatori teatrali della scena contemporanea, predicatori di una performance che rinnega la partitura testuale per favorire quella corporea. Ma quella di Édouard Louis è una scrittura fatta di immagini: come un aedo greco, l’attore/narratore fa fiorire nella nostra immaginazione ricordi, corpi, ambienti che sono invisibili sulla scena ma reali nella nostra mente. Durante lo spettacolo, vediamo il padre di Édouard, la madre, il fratello, vediamo la sua casa e la sua scuola, ma nulla di tutto questo appare fisicamente in scena, è solo il frutto della nostra capacità immaginativa. Dunque, i ricordi che avremo della messinscena non sono altro che immagini create individualmente. Questo significa che noi avremo visto uno spettacolo diverso dalla persona che ci sedeva accanto? Può darsi.
Eppure, l’assenza, spesso, ha un impatto maggiore della presenza stessa. In Qui tué a mon père quest’ossimoro è reso evidente dal corpo del padre. Un corpo assente, evocato da una coperta di lana stesa su una poltrona. Ma, allo stesso tempo, un corpo tangibile, distrutto dal lavoro, martoriato dalla fatica, espressione della discriminazione sociale e campo di battaglia politica, corpo oppresso dall’assedio economico, dal potere che abbrutisce l’uomo.
È su questo punto nevralgico che si concentra la conclusione del dramma. Édouard fa i nomi. E a questi nomi accompagna un volto: Chirac, Holland, Sarkozy, El Khomri, Macron…
Attraverso un’invettiva alla J’accuse che prende la forma di un rituale vuduista, l’autore ripercorre una ad una le politiche scorrette che hanno logorato il corpo del padre, considerato niente più che carne da macello da sfruttare finchè fruttuoso alle casse del Paese.
Il racconto intimo del complesso rapporto tra padre e figlio si fa denuncia politica, ed è qui che i due finalmente riescono ad incontrarsi. La scelta della parola posta a conclusione del dramma, pronunciata dal padre ma riportata da Édouard, suggella questa riconciliazione: rivoluzione.
Qui a tué mon père
Scritto e interpretato da: Édouard Louis
Diretto da: Thomas Ostermeier
Video design: Sébastien Dupouey, Marie Sanchez
Musica: Sylvain Jacques
Drammaturgia: Florian Borchmeyer, Élisa Leroy
Luci: Erich Schneider
Costumi: Caroline Tavernier
Scene: Nina Wetzel
Coproduzione: Schaubühne Berlino e Théâtre de la Ville Parigi
Presentato in anteprima a: Théâtre de la Ville – Les Abbesses il 9 settembre 2020, “Who killed my father” – 2018 – éditions du Seuil